Mentre mi aggiravo nei vocianti corridoi di Art Basel, che dopo l’annullamento a causa del Covid dell’edizione 2020 sono tornati quest’anno a popolarsi, seppur in maniera più contenuta rispetto al passato, della vistosa e affettata mondanità internazionale che nell’arte trova una facile via d’accesso all’altrimenti impervio e poco gratificante mondo della cultura, un ronzio incessante si è lentamente ma inesorabilmente imposto al mio orecchio. Un rumore di fondo monotono e continuo in cui sembravano fondersi e annullarsi tutti i commenti sussiegosi, le richieste noncuranti di prezzo, gli apprezzamenti ostentati di quell’affollata congerie di varia, ma comunque in gran parte ricca se non ricchissima, umanità. Poi, improvvisamente, dall’enorme e spettacolare foro circolare di Herzog e de Meuron si è alzata sul cielo di Basilea un enorme sfera bianca di fumo, detriti e vapore che non appena dissolta ha svelato al suo interno la famigerata colonna di nuvole sormontata da un cappello del fungo atomico. Dopo alcuni istanti, mentre il fungo si stava ormai dissolvendo, sono stato assordato, in una sorta di straniante fuori sincro tra immagine e suono, dal fragore terribile dell’esplosione. A quel punto però mi sono svegliato e ho capito che la scena che ho appena descritto non era altro che un sogno. Il mio inconscio aveva cercato, a modo suo, di risolvere un’incongruenza con cui mi ero confrontato nel corso di tutta la giornata, ovvero quella tra l’opera dell’artista americano Bruce Conner e il mercato. E l’aveva fatto, forse non a caso, utilizzando il procedimento classico della poetica surrealista, ovvero l’accostamento insolito, come il celebre incontro lautremontiano tra un ombrello e una macchina da cucire sopra un tavolo operatorio.
Del resto Bruce Conner (1930-2008), di cui a Basilea nei giorni della fiera d’arte ho avuto modo di visitare la mostra ospitata negli spazi del Museo Tinguely (visibile ancora fino al 28 novembre), proprio nel Surrealismo trova la sua fonte d’ispirazione primaria quando, intorno alla metà degli anni Cinquanta, si impone sulla scena americana con i suoi assemblages. Pur essendo con Robert Rauschenberg e Edvin Kienholz, una delle figure di spicco di questa tecnica, Conner però decide ben presto di abbandonarla per dedicarsi, con il gusto per la sperimentazione che lo caratterizzerà per tutta la vita, ad altri linguaggi. Vi è in questa scelta, innanzitutto, il rifiuto di rimanere imprigionato dentro un’identità confortevole sostenuta unicamente dalla necessità di avere un mercato per le proprie opere. Con coerenza e rigore, Conner, la cui vicenda corre parallela ai movimenti della controcultura americana della West Coast, passando dal Beat al Punk, manterrà sempre questo distacco dal mercato, e lo farà in molti modi, ad esempio rifiutandosi per molto tempo di firmare le proprie opere, oppure utilizzando spesso pseudonimi che ne celavano la vera identità.
Pur abbandonando gli assemblaggi, Conner non ne abbandona però il nucleo estetico essenziale, ovvero il principio per cui l’arte del nostro tempo non può che nascere accostando e rielaborando le immagini e gli oggetti che la società stessa mette a disposizione dell’artista. Da questo momento sono però gli spezzoni cinematografici il materiale «trovato» da cui prende avvio la sua ricerca artistica, che si concretizza in una serie di film sperimentali che appaiono ancora oggi come dei capolavori assoluti, a partire da A MOVIE del 1958 che anticipa gran parte di ciò che vedremo nell’ambito dell’audiovisivo nei decenni successivi. Ed è proprio quest’opera ad aprire l’esposizione di Basilea che, con il rigore di un allestimento totalmente immerso nell’oscurità, si focalizza unicamente sulla sua produzione filmica, culminando nella videoinstallazione di Crossroads, in cui, con la colonna sonora dell’amico Terry Riley, l’artista ci mostra in modo nuovo lo spettacolo terribile e sublime di un’esplosione atomica.
Utilizzando in prevalenza frammenti di film già esistenti, recuperati in vario modo, Conner rinnova attraverso i suoi film la lezione dei grandi maestri del montaggio del primo Novecento, da Eisenstein a Dziga Vertov, aggiornandola alla cultura Pop della seconda metà del Novecento. Una cultura Pop, da Marilyn a Kennedy, che è onnipresente, ma che nei suoi film viene completamente trasfigurata in una ricerca sospesa tra umorismo e dramma in cui si avverte sempre un’intensa tensione spirituale. Anche se limitata ai soli film, diversamente dalla grande retrospettiva che il MOMA gli ha dedicato nel 2016, l’esposizione di Basilea può far intuire le ragioni per cui Conner, a cui, tra le altre cose si attribuisce la paternità del videoclip musicale, è per molti il più grande artista americano del Novecento.
Tra questi molti figurava anche John Lennon, che dopo aver visto Looking for mushrooms, nel 1965 scrive all’artista americano una lettera di ammirazione del tutto analoga a quella che potrebbe aver scritto un qualsiasi fan dei Beatles. In ogni caso, chi ha conosciuto l’opera di Conner non può più dimenticarla e a volte se la sogna anche di notte.