Luigia Sorrentino con la nuova raccolta dal titolo Piazzale senza nome, (Pordenonelegge- Samuele Editore, 2021) scende come una antropologa della psiche, nei tremendi abissi che ognuno di noi potrebbe toccare per sofferenze proprie o altrui. Oggi si cammina, si sorride e discute amabilmente, domani chissà. Ogni verso di questo libro vuol ricordarci, in qualche modo, di rimanere sempre coscienti alla propria fragilità.
E Le morti parallele uno dei titoli iniziali, riassumono certamente il tempo polimorfo del dolore, che scandisce questo racconto in versi, di chi soffre gli ultimi istanti ma anche di chi li veglia e Sorrentino annota tutto con la crudezza di una parola metaforica, pronta a cogliere il cambiamento fisico che subisce il morente ma anche quello psicologico di chi guarda. E nell’asciutta descrizione della fine di un corpo, la poetessa ci riporta quadri metafisici davvero nitidi: «…Poi il respiro sprofonda nella gola carsica risucchiando via, a uno a uno, i nostri volti prima di approdare alla riva, ai cupi occhi della grande notte.//…». Cosa c’è per chi resta dopo l’evento irreversibile? forse una nuova prospettiva del sentire ed essere al mondo.
Ma l’originalità della raccolta, è l’intrecciarsi di molteplici fughe verso l’abisso, certo non volute davvero fino in fondo e forse «la squadra» che si aggirava nel piazzale senza nome, era alla ricerca davvero di qualcosa su cui poter fondare i propri giorni ma sappiamo e la poetessa è qui a ricordarcelo, che l’esistenza non è solo un bel sistema di idee astratte ma quell’accadere imprevedibile che sempre ci tocca ed orienta. E si pensò, per esempio negli anni ’80 del novecento, che la prova dell’assunzione di sostanze, fatta da quelle generazioni, portasse al compimento di una psichedelia gioiosa, si pensò sbagliando e così Sorrentino ingrandisce attraverso il nitore poetico quel momento, che per molti significò eroina: «seduti in cerchio bruciavano neve/nella carta stagnola, fiammella/venerata, laccio stretto coi denti//morte caduta nelle braccia/crivellate di colpi/presenza terribile nello sterno/…».
Ecco allora che questo scritto, potremmo chiamarlo il libro delle sparizioni silenziose; i ragazzi che qui passano non hanno mai nome, semmai sono ricordati anche per un gesto amoroso ma sempre dentro la corolla funerea dell’ago e l’astinenza da ebbrezza li circuisce, cinge, ordina ogni loro azione. Ma anche l’ebbrezza da velocità, porta il giovane motociclista a misurarsi col rischio della fine che è lì ad un passo già sull’asfalto; e poi l’orrore del femminicidio perpetrato su una giovane donna, delinea in maniera definitiva, il comune denominatore di tutte queste vite: la morte repentina, che scancella ogni giovane identità: «Il volto della ragazza è scoperto. Spalancati gli occhi. Sotto il mento, la linea violacea dell’orizzonte. Alla tempia scintille di fuoco. Forse il vento aveva portato nel suo orecchio schegge di ruggine, granelli di polvere mentre aveva strisciato bocconi sul bordo della strada…».
Ecco sicuramente il tragico, si affaccia su tutti i corpi, che potremmo avvicinarli, specialmente quelli disfatti dalle droghe degli ultimi decenni del novecento, alle pagine oscure di una società, che non volle prendere coscienza di quella piaga, anzi per non sviluppare «tristizia», preferì metterla sotto il tappeto della grande pagina progressiva delle produzioni seriali.
Ma Luigia Sorrentino, sottotraccia a queste figure dell’effimero, ne fa camminare un’altra silenziosa, che quasi si nasconde dietro una parola sempre più criptica, simbolica e con la piccola mano sembra salutarci, quasi ci sussurra: anch’io sentii qualcosa; ecco che il dolore di un aborto scende come un drappo a costeggiare le storie di tutti questi antieroi, la schiera dei malcapitati, di coloro che cercarono gioia e ricevettero violenza, sopraffazione, indifferenza e tutto nel volgersi di un attimo: «le mani nel momento impietoso/sono di altri, aperte agli avanzi/rivoltano il perimetro del corpo/per puro procedere/nel più stretto e angusto spazio//senza cautela il gesto umano/restringe l’insanabile vita/la risucchia via/deborda, cola sul pavimento/la tenebra».
Forse solo un uomo, colui che è come dice la poetessa, nella poesia che chiude il libro, non al cimitero ma negli utensili del giardino, tra tutte queste vite addolorate fu fortunato, poiché ebbe vicinanza nel momento della fine. Ecco Luigia Sorrentino è qui a ricordarci, nell’èra delle molteplici identità rafforzate e potenziate dagli strumenti digitali, che in verità il suo piazzale senza nome, è sempre lì a guardarci e sospirare dallo slargo di ogni via, di ogni tempo.