«Era questo, lo scopo del dolore: la sua cura». Un dolore generativo, più che generato dalla violenza del vivere, la malattia, la perdita, i conflitti di genere e interiori, le parti estreme dei desideri, la carnalità e il corpo, la ricerca del male (dal quale, la radice di Malvasia, malvagia); un dolore che arriva a generare la morte, che a sua volta genera dolore, facendosi entrambi oggetto d’indagine, come fossero il morto di cui occuparsi, per il quale binomio forse si vorrebbe trovare una ragione. Tanto è ciò a cui si va incontro prendendo in mano l’ultimo romanzo della scrittrice, oltre che poetessa e critica letteraria romana Gilda Policastro, La parte di Malvasia.
L’avvio del romanzo è volutamente travestito da giallo tradizionale, con la messa in scena del classico «misterioso omicidio della straniera», quasi a voler fare accomodare il lettore, per trasformarsi poche pagine dopo in una scomposizione della materia narrativa che si frammenta sempre più, pagina dopo pagina, trasformando le immagini in taglienti schegge di vetro, nelle quali il male, vero protagonista di quest’opera, tende a riflettersi ma anche a distorcersi per offrire a noi una percezione delle sue sfaccettature più recondite, comprese quelle di un certo disagio psicologico. Il tutto reso da una forma disarticolata, ovvero ricomposta con un montaggio narrativo che disorienta più che inquietare.
Il cosiddetto plot, pur non essendo romanzo di trama, parte infatti dalla scomparsa di una donna, Malvasia, peraltro sconosciuta ai più e arrivata nel quartiere da poco, non si sa da dove. Ad accertarne la morte – presumibilmente violenta e avvenuta per mano di terzi – sono il commissario Arena e l’aiutante Gippo, che avviano le indagini. Da qui il testo perde ogni topos del genere (de Giovanni nel suo blurb parla di «Un’altra sfumatura del nero»), mantenendo tuttavia la tensione narrativa che gioca sulla curiosità del lettore spinto a girare le pagine per capire dove l’autrice vuole portarlo.
Gilda Policastro, la malattia, il male, la morte, ma anche una certa forma di violenza e di impotenza, sono temi a lei cari, considerate anche le altre sue opere come Cella o Il farmaco. Il «male» si presta meglio alla forma del romanzo letterario?
Non so se si presta «meglio», bisognerebbe anche capire qual è l’alternativa, cos’è il bene, come si racconta, o se può essere narrativamente interessante. Ad ogni modo per me la cosa essenziale non è raccontare il male, ma non eliderlo dalla scena, in nome di un malinteso senso della piacevolezza narrativa, o della soglia di tollerabilità del lettore (che si presume sempre omologato, e sempre ingenuo). Lo scorso anno è uscita una serie violentissima che è diventata fenomeno di massa, Squid game, però poi si è gridato allo scandalo per Le ripetizioni di Giulio Mozzi. Non capisco questo recinto stretto di cui si circonda la letteratura: esistono ancora temi interdetti? Pasolini lo processavano per oscenità negli anni Sessanta e Settanta, penso che oggi, al netto della censura di Facebook, che riguarda soprattutto la politica, dovremmo sentirci un po’ più aperti.
In Malvasia le voci narranti si attorcigliano, confondono, poche volte chiariscono con lucide sentenze, altre volte si fanno metaletterarie, e pure capita che si rivolgano al lettore: sono più ammiccamenti o inneschi del dispositivo drammatico?
Niente di tutto questo: il romanzo nasce da un’immaginazione, da una fantasia su una donna morta. Dunque il problema era: come si fa parlare una donna morta? La si fa raccontare dagli altri, ma ci si sente poi responsabili di appropriazione anzi di esproprio di identità. E quindi ogni tanto Malvasia torna a riprendersi quello che è suo, una voce «deportata», per dirla con un poeta a me caro. Malvasia è l’impossibilità di raccontare la morte che solo ci sia dato di vivere, che è quella degli altri. Se gli altri sono persone care, l’appropriazione o l’esproprio è ancora più indebito (e doloroso). Quella fluttuazione risponde a questo tipo di esigenza, ma è più letteraria che programmatica, o forse è più emotiva che letteraria.
Il testo mette talvolta a nudo uno sguardo «maschilista»: quanto contiene Malvasia della dualità maschile/femminile e quanto ha che fare con gli attuali temi di genere?
Quando penso al genere, mi viene in mente sempre l’ambivalenza di Leopardi, in cui il «gener frale» è il femminile, ma poi alla fine la natura umana in quanto tale. Non credo che ci sia uno sguardo maschilista nel libro, ma in generale lo sguardo sui corpi delle donne e sulle qualità prettamente estetiche è uno sguardo che nell’immaginario (soprattutto femminile, a ben pensarci) si consegna o si attribuisce al maschio. Ci si apparecchia per essere guardate. La parte di Malvasia poi è ambientato in un mondo piccolo, in un paese che da un lato è come quello dai confini di gesso di Dogville, ma somiglia anche al paesello di quindicimila anime in cui sono cresciuta e tante donne che conosco, come me, in posti come il paese o il quartiere hanno introiettato lo sguardo del maschio, ma in generale dell’altro. Che poi in un’ottica non maschilista è anche la prima misura della propria identità, fuori dallo specchio.
E in merito alla violenza sulle donne?
Il libro non parla di violenza sulle donne, se non per accidente, con un articolo di giornale, quindi qualcosa di episodico, sebbene drammatico. La violenza maggiore sulle donne e sulle creature, nel libro, è la morte, ma prima ancora la malattia, o anche solo l’invecchiamento. Come dico in un passaggio del libro, quando si è vecchi c’è questa inversione per cui la conquista dell’autonomia della vita adulta regredisce a dipendenza degli altri e tutte le abilità acquisite nel tempo si rovesciano in incapacità e rinunce. Ma qui lo spiego, nel libro lo dico (o lo mostro).
La natura letteraria del romanzo è evidente da stili e forma: quanto sono dati dal godimento che si può trarre da un esercizio di bravura e quanto è funzionale alla narrazione? (Penso ad esempio ai capitoli dialogici, uno reso tale anche graficamente; e alla paratassi di alcuni paragrafi).
Faccio fatica a pensare agli esercizi di bravura come a un problema. Il talento non è da nascondere in nessuna disciplina, sport, arte, solo in letteratura se sei bravo a scrivere te ne devi quasi vergognare e «dirlo peggio», così non spaventi nessuno. Ma perché? Io non mi sono mai spaventata e quando mi è capitato (leggendo Mann, ad esempio), è stato un bell’effetto. Ho cominciato a leggere di più per capire di più, non a leggere cose scritte peggio per capirle meglio.
In che modo dialoga, se dialogo c’è, Malvasia con La cognizione del dolore di Gadda? O altre opere, come I fratelli Karamazov di Dostoevskij?
Con I Karamazov in modo esplicito, perché uno dei temi del libro è l’esplorazione del dolore ma anche della violenza ingiustificata e familiare, come quella dei genitori che torturano senza ragione la loro figlioletta in Dostoevskij. Ma il passo mi serve non in modo didascalico per rivendicare l’innocenza delle creature: al contrario, per indagare la presenza di un mondo pulsionale oscuro che può risultare incomprensibile, ma che pure esiste (quello che all’inizio della conversazione chiamavamo «il male»). La Cognizione è uno dei miei libri formativi: una mia compagna di corso ci fece la tesi, e mi appassionai alle sue ricerche. Nel libro ci sono due citazioni dirette, che non svelo perché sono molto riconoscibili. Quello che mi interessa è come Gadda arrivi alla verità (dell’esistenza, non della trama) attraverso un percorso graduale: con Malvasia ci ho provato, ma nell’esperienza che volevo mettere in forma era più forte la tensione prodotta dallo choc. Io racconto una diagnosi, Gadda un progettato matricidio. Ma forse nella mia «diagnosi» c’era anche questo. Letterariamente, dico.
«La verità è sopravvalutata, io voglio solo bugie. La letteratura è una bugia, la più grande bugia che l’uomo ha inventato», si legge nel romanzo: come può la letteratura svelare verità sul mondo, se di fatto è «sempre» una bugia?
Ah, questo bisognerebbe chiederlo a Dante, che si finge impunemente tra mostri, dannati e diavoli o tra santi e Vergini e nessuno dei suoi lettori, specie ai suoi tempi, gli negava la sospensione dell’incredulità. Quello che voglio dire è che la letteratura è sempre un’operazione a tavolino, il che per altre arti è un’ovvietà. Il selfie che ti sei scattata per i tuoi profili social è un’idea di te, una messa in forma di una cosa che vagamente somiglia a te, ma non sei tu. È una bugia. Malvasia è il mio selfie: ma anche questa è una bugia.
Bibliografia
La parte di Malvasia, Gilda Policastro, La nave di Teseo Editore, 2021, pp. 208.