È uno dei testi ibseniani più rappresentati al mondo, L’Anitra selvatica, e assume un significato molto particolare, forse in quanto la trama non è concentrata su un vero e proprio protagonista accompagnato lungo un difficile e tormentato percorso psicologico, ma offre molte e appassionanti possibilità di lettura della vita famigliare, anche contemporanea, con tutti i suoi pesanti fardelli, i conflitti repressi e gli impensabili rovesci della medaglia che non possono che condurre alla sventura.
Di questa pièce allucinante e di alta caratura letteraria del grande drammaturgo norvegese, è in cartellone fino a giugno alla Schauspielhaus di Zurigo un nuovo allestimento non stravolto e neppure rivisitato, ma analizzato nelle sue pieghe profonde dalla regista olandese Alize Zandwijk (traduzione in tedesco di Hinrich Schmid-Henkel, scenografia e costumi di Thomas Rupert, musiche di Maartje Teussnik, luci di Markus Keusch) e con un buon cast, nel quale giganteggia Marie Rosa Tietjen nei panni di Hedwig. Un allestimento, inoltre, forte di un’ambientazione orchestrata tra fiaba e naturalismo, tra malinconie fitte e profonde come le nebbie nordiche e la piatta realtà del trascorrere quotidiano; e con un’anitra selvatica invalida come filo conduttore e che assurge a simbolo di una foresta di falsi miraggi e di un’impalcatura di vita ormai crollata.
Sono, queste, preziose intuizioni per un pubblico coinvolto che viene passo passo condotto verso il tragico finale. E il tema cruciale della pièce è proprio la demolizione sistematica di quel paradossalmente sicuro castello di illusioni da parte dell’esaltato di turno alla ricerca della verità ad ogni costo: la demolizione di quella «Lebenslüge» (bugia di una vita intera) su cui poggia saldamente la realtà famigliare dei protagonisti, per far posto a una verità che invece uccide.
Tutta all’insegna della fedeltà al testo, la lettura proposta dalla Zandwijk viene purtroppo inutilmente enfatizzata da commenti musicali dal vivo, in scena, che non aggiungono nulla se non inutile pathos (per non dire kitsch) alla rappresentazione. Notevole, la prestazione di tutti gli attori: da Milian Zerzawy nei panni dell’inflessibile Gregers, il giustiziere per amore di rettitudine e verità, a Hans Kremer in quelli di Werle, suo padre; da Siggi Schwientek nel ruolo del vecchio, nostalgico, tragicomico Ekdal a Christian Baumbach in quelli di suo figlio, il malinconico, debole e sballato Hjalmar, alla come detto straordinaria Marie Rosa Tietjen nella parte di Hedwig, la figlia di quest’ultimo, che lo adora e che per lui si immolerà, a tutti gli altri.
Scroscianti e interminabili gli applausi da parte degli spettatori della première.