Fra tutti i titoli affidati in questi anni a Davide Livermore dal Teatro alla Scala, La Gioconda, è senza dubbio, il più complesso e temibile. L’opera di Amilcare Ponchielli, andata in scena per la prima volta proprio in quel teatro l’8 aprile 1876, è infatti «una fatale disgrazia drammaturgica» – per citare Folco Portinari – che poco o nulla si presta alle riletture dense di significato cui il regista ci ha ormai abituati. Il libretto di Tobia Gorrio – anagramma sotto cui si cela, consapevole del proprio misfatto, Arrigo Boito – riscrive un dramma in prosa di Hugo, Angelo, tyran de Padoue, emendandolo però di ogni riferimento politico e spostando la scena nella più spumeggiante Venezia.
Quello che resta è una trama un po’ scombinata, carica di orrore e patetismo, truculenta e a tratti grottesca in cui, incredibilmente, il grandguignol e la scapigliatura si tendono la mano. La cornice della vicenda è un pentagono del desiderio in cui nessun amore è corrisposto tranne uno, mentre i personaggi principali sembrano più stereotipi narrativi che figure atte a facilitare l’identificazione e non sorprende, quindi, che Ponchielli abbia guardato al grand-opéra per fornire il supporto musicale adeguato a un simile pasticcio. Sulla scia di quel modello, il libretto si riduce a un pretesto per la macchina teatrale, per le canzoni, le romanze, le scene d’assieme e i balletti; a cominciare dalla celeberrima «danza delle ore», che tutti noi ricordiamo magnificamente interpretata dagli ippopotami di Walt Disney.
In un simile parco giochi per melomani, tutto è pensato in funzione delle voci e al regista non resta altro che fabbricare delle magnifiche scenografie su cui piazzare i cantanti in pose plastiche. Coerentemente con queste premesse, Livermore decide, pertanto, di concentrarsi sugli effetti scenici, sui costumi e sulle proiezioni, piuttosto che perdere tempo a indottrinare i cantanti su come interpretare le loro parti; costruisce una Venezia tutta filigrane e trasparenze, ispirata ai disegni della Venise céleste di Moebius, porta sul palco un veliero a dimensioni naturali e lascia che quattro servi di scena in veste di Pulcinella movimentino l’azione al posto dei protagonisti. Lo scenografo Giò Forma ricrea, così, una Venezia evanescente e nebulosa, foscamente delineata dalle luci di Antonio Castro, fra i cui vicoli si muove una turba di personaggi abbigliati e acconciati da Mariana Fracasso. Per una volta il regista può sedersi in platea e godersi lo spettacolo, perché alla riuscita di Gioconda basta il tableau vivant.
Liberato dal fardello della vicenda, lo spettatore può finalmente concentrarsi su quello che conta davvero in Gioconda: il canto. Per ognuno dei sei protagonisti – uno per tipologia vocale – Ponchielli ha scritto almeno una romanza, un’aria o una canzone formidabile oltre a due memorabili duetti e innumerevoli pezzi concertati. Nel clangore roboante di questa festa del belcanto agli interpreti viene, però, chiesto di emergere soltanto per bellezza di timbro e sicurezza nel registro acuto, senza perdersi in finezze di fraseggio o ricercatezze nelle dinamiche.
Sulla carta la Scala aveva apparecchiato il cast ottimale per rispondere a queste necessità, nelle cui fila brillavano i nomi di Sonya Yoncheva e Fabio Sartori. La prima, intestataria del ruolo del titolo, è caduta vittima di indisposizione all’inizio della produzione ed è stata sostituita dalla magnifica Saioa Hernández, vera vincitrice della serata. Sartori, infortunatosi nella fase finale delle prove, ha ceduto il ruolo di Enzo Grimaldo a Stefano La Colla, catapultato in palcoscenico praticamente a due giorni dalla generale. La voce è di schietto tenore lirico e naviga attraverso le spigolosità della parte senza timori; la presenza scenica non è memorabile, ma ha salvato la serata. Merita invece davvero il basso Erwin Schrott, che delinea un Alvise Badoero credibilissimo. Del tutto a proprio agio, anche se a tratti un po’ spaesata dalle incongruenze del personaggio, il mezzo-soprano Daniela Barcellona come Laura Adorno. In grave difficoltà, invece, il contralto Anna Maria Chiuri che della cieca non ha né lo spessore vocale né il timbro. Chiude l’elenco dei protagonisti il Barnaba del baritono Roberto Frontali, la cui voce, usurata dai molti anni di carriera, non riesce più a salire in maniera credibile oltre il registro medio.
L’applauso più intenso dello spettacolo va ai giovani danzatori della Scuola di ballo dell’Accademia del teatro alla Scala diretta da Fréderic Olivier. È l’unico momento della serata in cui fra buca e palcoscenico sembra esserci accordo totale. Mosso a pietà per la sua protagonista, a pochi minuti dalla fine, Livermore decide di riprendersi il ruolo di demiurgo; con un trucchetto da vaudeville, si intromette nella vicenda, riscrive il finale e garantisce a Gioconda una via di fuga e di salvezza, giustificando in questo modo tutto l’incomprensibile andirivieni di angeli svolazzanti a mezz’aria. Una trovata sorprendente e del tutto superflua, perché Gioconda si era già ampiamente salvata da sola!
Al termine di quattro ore di musica e nonostante tutto, infatti, il pubblico è in visibilio, a dimostrazione, se ve ne fosse bisogno, che l’opera non è una sotto-specie della prosa e il suo successo dipende da fattori molto più intimi della semplice razionalità. Si replica fino al 25 giugno.