In un mondo musicale in cui i gruppi capitanati da un pianista sono sempre più presenti (e a volte tutti un po’ simili) urge la necessità di smarcarsi dai modelli, in particolare di quelle band nordeuropee che hanno fornito tanti esempi di successo e sembrano dettare legge. In questo contesto prosegue l’opera di «smontaggio» del linguaggio jazz e l’avvicinamento all’espressività classica di Lorenzo De Finti, pianista ticinese dalle grandi capacità.
Il suo nuovo disco Love Unknown continua la ricerca che già caratterizzava il suo lavoro precedente, We live Here. E di nuovo colpiscono l’ascoltatore il suono curatissimo e la volontà di rispettare e mettere in risalto la personalità di ognuno dei partner nel suo quartetto. Love Unknown propone una scaletta di brani intensamente lavorati e «pensati», in cui il lavoro di composizione è preciso e solido: un disegno nato sulla carta da musica più che dalle «improvvisazioni compositive» praticate spesso dai gruppi jazz moderni.
De Finti, mi permetta di etichettare il suo nuovo lavoro come un album di «cool fusion». L’anima fusion è una caratteristica della sua personalità musicale. La conoscevamo dal suo disco Colors of Life e dai concerti con cui l’ha presentato in Ticino (tra l’altro anche a Estival) ed è conservata nell’impianto ritmico dei nuovi brani, ma la parte armonica e melodica è invece fredda, lineare e astratta. Che ne pensa?
Beh, è affascinante come definizione, se pensiamo poi a quel tentativo fallito di reazione chimica che cercava di realizzare un processo fisico...(ride). Sono parzialmente d’accordo, in particolare per il primo brano, The Vortex of the Angel, ma non tanto per Lied Ohne Worte, dove in fondo siamo ai confini tra jazz e musica classica. Chiaramente molte delle ispirazioni per il mio lavoro di compositore le traggo da Esbjorn Svensson, con l’uso del contrabbasso distorto, di atmosfere aperte. Posso dirle che il disco originariamente doveva uscire per l’ECM, quindi il sound generale è calibrato per l’estetica caratteristica di quell’etichetta. Poi una serie di problemi con Eicher hanno fatto cambiare la casa discografica. Ma nonostante ciò abbiamo deciso di mantenere quella direzione algida, acustica, anche se ci siamo poi un po’ liberati dalla matrice, introducendo alcuni passaggi quasi rock.
Un album pensato a tavolino o nato in gruppo, da improvvisazioni?
Il disco è stato composto a quattro mani da Stefano Dall’Ora, il bassista, e da me. Siamo arrivati in sala d’incisione con le parti scritte, poi naturalmente è subentrata la libertà e l’intelligenza dei nostri partner (Gendrikson Mena Diaz alla tromba e Marco Castiglioni alla batteria) che possono intervenire e cambiare quello che si può cambiare. Per esempio nel secondo brano, The Day I Will See you Again, la parte iniziale, il dialogo tra il pianoforte e la tromba è tutta completamente scritta, mentre l’assolo del contrabbasso e del pianoforte sono completamente improvvisati. Insomma, è un’alternanza di parti scritte e di parti libere. Queste ultime comunque sono abbastanza ben inquadrate. Anche nel brano centrale, la mini suite Return to Quarakosh, dedicata al massacro perpetrato dall’Isis in un villaggio iracheno, la parte centrale con assolo di batteria e di tromba è completamente libera, mentre l’inizio e la fine sono composti.
Il brano è una reazione d’impulso a una situazione drammatica e inaccettabile dal punto di vista dei diritti umani, un grido di indignazione. Ma il vostro è un disco concept?
Diversamente da We Live Here, l’album è nato più liberamente. Si tratta di brani singoli che però adesso abbiamo messo in ordine e sono diventati a loro volta una piccola suite (un’idea tra l’altro che ci aveva dato Eicher). Dal vivo la suoneremo come una suite: è una sfida per l’ascoltatore ma anche per noi perché è un grande impegno. Ma è bellissimo quando riesci a catturare l’ascoltatore che rimane attento per un’ora e ti segue.
Si sente che state lavorando sul suono del gruppo... la tromba ha una voce molto originale, il pianoforte è sempre alla ricerca di soluzioni melodiche non usuali.
È una cosa su cui lavoriamo tutti, è come dover imparare un linguaggio nuovo. Pur rispettando chi suona il jazz degli standards, ci sembra inutile suonare cose già fatte. Posto che suonare qualcosa di nuovo è difficile, forse impossibile, e che le novità attuali saranno forse riconosciute fra dieci anni, la nostra ricerca del sound di gruppo è costante. Abbiamo la fortuna di avere molte date a livello internazionale e questo ci aiuta a consolidare il lavoro. Quello di noi che fa più fatica è forse il trombettista, che parte da una tradizione musicale molto diversa. È un virtuoso cubano, ma ha saputo calarsi nella mentalità tutto sommato scandinava della nostra musica. In fondo è stata una mia scommessa. Io sapevo che sarebbe stato in grado di farlo: è stato come mettere un attaccante nel ruolo di difensore... Eicher quando lo ha sentito ha detto che suona come Kenny Wheeler. Con le nostre indicazioni si è calato il meglio possibile in questo mondo e io sono molto contento. Il disco uscirà venerdì 12 ottobre per Losen Records e, grande onore, sarà presentato dal vivo al Nasjonal Jazzscene di Oslo, da cui il concerto sarà proposto in diretta streaming. Il 14 ottobre saremo all’Elisarion di Minusio, alle 17.00, ma lì suoneremo le musiche dell’album precedente. La presentazione in Ticino di Love Unknown è prevista per il 7 dicembre a Jazz in Bess, Lugano.