Quando veniva invitato in una scuola per parlare di poesia, Franco Loi sceglieva una parola a caso, poniamo «sedia» e chiedeva a un allievo di ripeterla come un mantra. Dopo qualche secondo nell’aula si cominciava a percepire qualcosa di magico: il significato si offuscava fino a svanire, mentre emergeva, pura e rimbombante nella sua essenza primigenia, la catena sonora del significante.
Una suddivisione impressionistica della poesia potrebbe distinguere due categorie fondamentali a partire dal coefficiente di sensibilità fonetica degli autori: fonosimbolisti contro contenutisti. Mettiamo Pascoli, Baudelaire e Orelli contro Leopardi, Carducci e Pasolini. Ma la dimensione sonora in poesia va vista piuttosto come un fiume carsico che attraversa epoche e stili e ogni tanto risale in superficie. Non è certo questo il campo in cui si possa ragionare in termini assoluti. E che dire di un poeta come Montale, non ascrivibile tra i sensibili alla phoné, con un incipit aspro e percussivo come «Arremba sulla strinata proda»? D’altronde Giorgio Orelli ci ha insegnato da par suo che a volerlo cercare, un sostrato fonosimbolico lo si può trovare perfino in autori insospettabili.
Queste e altre considerazioni sono contenute in un volume sorprendente dal titolo L’incanto fonico. L’arte di dire la poesia. Sorprendente poiché a dispetto del titolo non si tratta di un saggio, né di un manuale didattico a uso delle scuole teatrali, né della testimonianza di un percorso artistico. Ma che cos’è allora questo volume accolto nella prestigiosa collana einaudiana «Gli struzzi»? Lo definirei una fusione – incandescente a giudicare dallo spasmodico bisogno di comunicare dell’autrice – tra aforismi e brevissimi poemi in prosa attorno al dire la poesia. Un proferire che diventa pro-ferire, cioè pronunciare i suoni in tutto il loro potenziale incanto sonoro per risvegliare nell’ascoltatore il portato magico della vera poesia. Come uno spartito musicale che chieda di essere eseguito, per l’autrice ogni grande poesia attende il dicitore capace di richiamare in vita i suoni sepolti nella pagina e tramutarli in vibrazioni («ogni poesia implora un respiro che la dica»). La forma sonora del verso, secondo l’autrice, non è solo la sua veste, ne è proprio l’essenza, «una formula magica schiacciata in un libro».
Benché possa apparire eccentrico e a tratti divagante, in realtà il libro è logicamente strutturato in capitoli che indagano tutte le dimensioni di questa affascinante liturgia che è la parola poetica: il silenzio, la voce, il respiro, il ritmo, lo studio a memoria, l’amplificazione, l’emozione del pubblico (Mariangela Gualtieri vanta una lunga esperienza di reading poetici). Il volume per altro sfiora questioni dibattute da sempre, come la (in)traducibilità poetica, la fusione originale di parola cantata, musica e danza (il legame primigenio tra suono e musica è rimasto nella terminologia poetica come un residuo irrelato: canzone, sonetto, madrigale, ballata…), la vexata quaestio della retorica nella poesia, la sua valenza euristica… Ma qui, come accennato, non importa dibattere teoricamente, importa testimoniare l’esperienza viva, nella carne della poesia (a tal punto che a volte la tensione lirico-ermeneutica si agglutina in una sintassi disossata).
Questo febbricitante elogio del significante («l’abissale calco d’origine» scrive l’autrice) richiama dunque la necessità di tornare ad auscultare i testi rifuggendo dal frastuono di fondo dei nostri tempi. Un invito che riecheggia una considerazione già espressa da Giovanni Pozzi: «Le parole devono essere fasciate dal silenzio». Nel suo percorso di ascesi dell’attenzione verso i suoni Mariangela Gualtieri sfrutta con sapienza l’amplificazione della voce per giungere, durante le sue letture, all’intimità plurima di un sussurro condiviso con centinaia di persone. Un procedimento comune, certo, che in passato ha raggiunto performance memorabili attraverso le voci di Ungaretti o Carmelo Bene, o le modulazioni virtuosistiche di Dario Fo in Mistero buffo. Per non parlare di due lettori sublimi come Giovanni Raboni e Sandro Lombardi. Ma ciò che cerca l’autrice, dotata di un orecchio ipersensibile, è la dimensione sacrale della poesia.
D’altro canto l’apprendimento a memoria a cui viene esortato il lettore non ha nulla di strumentalmente utile (non si badi a chi dice che serve ad allenare la mente come un muscolo). È invece un rito iniziatico da riservare alla grande poesia. Poter far risuonare le terzine dantesche dentro di sé ha una valenza catartica «che ’ntender no la può chi no la prova».
Un libro con una tesi troppo audace? Forse. Ma lo stesso Orelli, per tornare ancora a lui, pur così radicale nelle sue analisi (questo libro gli sarebbe certo piaciuto), avvertiva la necessità di trovare «un juste milieu» nella "caccia” ai valori fonosimbolici in letteratura. Chi scrive, ciò nonostante, è convinto che il fruscio dell’onda che si infrange sul bagnasciuga dica incessantemente «thalassa», cioè «mare». Almeno in Grecia.