Il 16 ottobre ha riaperto il Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato. Una notizia importante perché è stato per lunghi anni il fulcro dell’arte contemporanea in Italia. Inaugurato nel 1988 era, assieme al Castello di Rivoli, una delle poche eccellenze dedicate all’arte dagli anni Cinquanta a oggi in Italia. Oltre mille le opere della collezione divise tra sculture, installazioni, dipinti, fotografie e video; fra Arte Povera, Transavanguardia, Poesia concreta e visiva… la collezione vanta opere di Anish Kapoor, Jan Fabre, Jannis Kounellis e Sol LeWitt, solo per citarne alcuni. Dopo alterne vicissitudini e scarsi visitatori, chiude. Nel 2006 il rilancio con l’ampliamento della sede museale commissionata, sempre dalla famiglia Pecci, noti imprenditori tessili di Prato, all’architetto Maurice Nio.
I lavori iniziano nel 2010 e terminano appunto il 16 ottobre scorso, giorno dell’inaugurazione. Il progetto di Maurice Nio, architetto olandese, prevede l’abbraccio dell’edificio preesistente di Italo Gamberini attraverso una nuova struttura ellittica e fluida con una sorta di antenna curva in alto per captare idealmente la creatività circostante. Così scrive l’architetto: «sintonizziamo il mondo fisico su di una frequenza diversa, facciamo vibrare il materiale in modo nuovo». La superficie del vecchio edificio era di 4310 metri quadrati; l’ampliamento è di 7815. La superficie totale odierna del museo è di 12’125 metri quadrati. La struttura esterna è di certo accattivante e inusuale. Non a caso da subito viene chiamata «l’astronave». L’interno per ora è di difficile valutazione. Anche perché l’abbiamo visitato a lavori in via di definizione: stucchi, vernici, pavimenti, luci… Certo la forma ellittica non aiuta e comunque le luci non sembrano ottimali. In ogni caso l’audacia della struttura sembra incoraggiante.
Per l’inaugurazione è stata presentata la mostra La fine del mondo, curata dal nuovo direttore Fabio Cavallucci.
Per Cavallucci l’arte non è più un modo di intendere la storia e la società in senso progressivo e lineare; non esiste un prima e un dopo; non ci sono più valori che segnano e distanziano il passato dal presente; ma la storia è costellata di cerchi che si affastellano uno dentro l’altro. Scomparse le ideologie totalizzanti, come il comunismo e il fascismo (ma altre altrettanto pericolose si stanno affacciando nel nuovo millennio), rimaniamo immersi in un mondo fluttuante dove le guerre diffuse, le esclusioni, le catastrofi ci accompagnano, pur non segnando il nostro vivere quotidiano. Per lui la fine del mondo è un sintomo: «lo stato di incertezza, la condizione di sospensione, l’incapacità di comprendere i grandi cambiamenti presenti, che ci fa pensare che una situazione che abbiamo conosciuto finora sia ormai giunta al termine».
Certo non una visione apocalittica e millenaristica, tanto cara a religiosi o pensatori politici di vario stampo, ma semplicemente una sorta di epoché, di sospensione del giudizio perché come scrive René Descartes «se […] non è in mio potere di pervenire alla conoscenza di verità alcuna, almeno è in mio potere di sospendere il mio giudizio». Cavallucci sostiene che la fine del mondo coincide con la fine del nostro mondo culturale e dei suoi processi cognitivi e percettivi che ci hanno accompagnato dall’antica Grecia a oggi. La mostra è quindi il risultato di un «sentimento diviso tra vanità delle nostre azioni, nostalgia di ciò che è stato e non è più, e – forse – qualche bagliore di futuro…». Di conseguenza la storia dell’arte non ha più un andamento cronologico ma alto e basso, orizzontale e verticale, passato e presente si mescolano senza preclusioni di sorta.
Se la fine del mondo è già avvenuta e non sappiamo cosa ci prepara il futuro è ovvio che viviamo in un periodo di incertezze; e queste incertezze sono esposte in mostra ora come utopia, ora come distruzione, ora come visione. Al primo piano Thomas Hirschhorn apre la strada con Break Through nel quale il mondo cade dal soffitto squarciato tramite fili e oggetti vari come in una catastrofe senza volto.
Henrique Oliveira con Transarquitetònica ci trasporta nella storia dell’uomo lungo un viaggio iniziatico (e un po’ claustrofobico) all’interno di un tunnel che scandisce la progressione architettonica – dalle costruzioni in fango a quelle in pietra e poi in mattoni e cemento – fra odori e stratificazioni sensoriali. Da vedere le grandiose mappe realizzate da Qiu Zhijie nelle quali il sogno e la storia si intrecciano creando un universo parallelo, come una sorta di fantastilandia. Ma l’opera maggiormente intrigante è sicuramente Head On di un altro cinese Cai Guo-Quiang: novantanove lupi impagliati (o forse finti per non indispettire gli animalisti) corrono per cozzare contro una parete di vetro e venirne respinti. Una metafora della caduta del Muro di Berlino, o meglio dello scontro fra natura e cultura. Ma poi troviamo opere di Rossella Biscotti, di Björk, di Adel Abdessemed, Olafur Eliasson, delle Pussy Riot. In un angolo, un po’ isolati – brutta sistemazione – lavori di Marcel Duchamp, Pablo Picasso, Umberto Boccioni e la splendida scultura della venere curvacea del paleolitico, simbolo della fertilità. A rafforzare l’idea che l’oggi e il passato coincidono.
Infine, in occasione della mostra La fine del mondo, una selezione di opere della collezione del museo sono esposte a corollario in diverse sedi della regione: al Museo delle scienze planetarie di Prato, alla Biblioteca nazionale centrale di Firenze, al Museo di storia naturale della Specola a Firenze, al Museo Leonardiano da Vinci al Castello dei conti Guidi, al Museo e istituto fiorentino di preistoria Paolo Graziosi di Firenze e alla Scuola normale di Pisa.