La filosofia di Ohad Naharin

MOMO e la Batsheva Dance Company hanno incantato il LAC
/ 08.05.2023
di Giorgia Del Don

Assistere a uno spettacolo della Batsheva Dance Company è un’esperienza rara, un momento di danza prezioso, che confonde. La capacità che Ohad Naharin ha di valorizzare la personalità di ogni suo interprete spingendolo a cercare il movimento dentro di sé al di là di ogni imperativo estetico, impregna ogni coreografia. Al contempo rigorose e spontanee, le creazioni di Naharin, direttore artistico della compagnia per quasi trent’anni e oggi coreografo residente, sprigionano qualcosa di molto singolare, riconducibile anche alle varie esperienze che ha vissuto, alla sua cultura e al suo originale e personale approccio alla danza.

Nato in un kibbutz a Mizra, Israele, da genitori che hanno saputo sviluppare la sua creatività, pupillo della straordinaria e complessa Martha Graham e formatosi in scuole prestigiose quali la Juilliard e l’American Ballet, ma anche membro della compagnia di Maurice Béjart che ha abbandonato dopo un anno, Ohad Naharin ha assorbito tutte queste esperienze facendole sue. Guidato dalle prime sensazioni provate ballando, dalla gioia spontanea risentita nel corpo che si muove al ritmo della musica, il coreografo israeliano ha maturato una filosofia della danza che ha chiamato Gaga, un nome che evoca i primi suoni pronunciati dai bambini. La spontaneità, la ricerca delle sensazioni che danno vita a un gesto al di là del suo significato, delle sue connotazioni culturali e delle sue qualità estetiche, stanno alla base del suo potente linguaggio coreografico che esplora ogni piccola, piccolissima parte del nostro corpo.

Il Gaga è stato concettualizzato con l’intento di ampliare la coscienza dell’interprete rispetto alle proprie sensazioni corporee e di permettergli, allo stesso tempo, di liberarsi da automatismi propri alla danza (classica ma anche contemporanea), di andare oltre la rassicurante familiarità della tecnica. Si tratta di un linguaggio «interno» che nasce dalla soggettività di ognuno, che quando prende vita sul palco ha qualcosa di piacevolmente spaventoso, di spontaneo e vero. Togliendo gli specchi dalla sala prove, Naharin la trasforma in spazio rituale, ridirige lo sguardo degli interpreti all’interno del proprio corpo e ridà alle sensazioni, piacevoli ma anche dolorose, tutto lo spazio che meritano. Invece di spingere i corpi dei ballerini ai limiti delle loro capacità, utilizzandoli come semplici strumenti al servizio di un’idea coreografica suprema, il padre del Gaga li incita ad ascoltarsi, a essere umanamente imperfetti. Dando la possibilità anche ai non professionisti di tutte le età di sperimentare la sua filosofia della danza, Ohad Naharin rivendica un movimento non per forza estetico o performativo ma autentico, una danza per tutti che non può non ricordarci quella promossa dall’immensa Anna Halprin.

MOMO, il suo ultimo spettacolo presentato in prima svizzera al LAC in aprile, è il frutto di questa ricerca minuziosa, il riflesso del rapporto di fiducia che unisce il coreografo ai suoi ballerini, molti dei quali si sono formati presso l’ensemble junior della compagnia e che hanno partecipato, con Ariel Cohen, lui stesso ex ballerino della Batsheva, alla scrittura della coreografia. Si tratta di una vera e propria co-creazione che, rompendo qualsiasi gerarchia, si nutre delle sensibilità di ogni interprete. È proprio della rottura degli schemi tradizionali di pensiero e della rimessa in questione delle soffocanti categorie sociali che MOMO parla.

Sul palco convivono due coreografie apparentemente distinte: una interpretata da quattro ballerini «uomini» che indossano solo un paio di pantaloni militari e si muovono all’unisono, come un solo corpo, e una seconda che nasce dall’incontro di sette interpreti identificabili come «donne» e persone queer. Questo secondo gruppo si oppone alla sincronia del quartetto attraverso una serie di assoli dal sapore improvvisato durante i quali i ballerini danno catarticamente sfogo alle loro emozioni, esplorano movimenti atipici godendo del piacere di danzare. I due gruppi non evolvono, come sembrerebbe, in modo indipendente: la sincronia militaresca per il primo e la gioiosa fluidità per il secondo, si invertono, gli uni sperimentano le emozioni degli altri trasformando il palco in uno spazio di ricerca. Gli spettatori sono allora spinti a riconsiderare l’insieme allontanandosi dalla solita logica manichea fra bene e male, libertà e prigionia, maschile e femminile.

Ohad Naharin scava nel profondo dei suoi interpreti e cerca ciò che li accomuna nelle loro luminose e umane imperfezioni. La musica, affascinante e potente di Laurie Anderson e Philip Glass, arricchita dalle misteriose melodie create dall’artista trans queer venezuelana Arca, partecipa alla costruzione di un rituale condiviso che tocca nel profondo.