Dove e quando
Domenico Gnoli, Fondazione Prada, Milano (Largo Isarco). Orari: 10.00-19.00; martedì chiuso. Fino al 27 febbraio 2022. fondazioneprada.org


Là, dove risuona la storia dell’arte italiana

Domenico Gnoli protagonista di un’esposizione alla Fondazione Prada di Milano
/ 13.12.2021
di Elio Schenini

Siamo tutti d’accordo, la grande retrospettiva che la Fondazione Prada di Milano dedica a Domenico Gnoli è proprio bella. Bellissimi, quasi da rimanere senza parole, i suoi dipinti, soprattutto quelli realizzati in quel brevissimo giro d’anni che vanno dal 1964 al 1970, anno della sua morte prematura. Bello, come sempre, l’ex spazio industriale, che la tenacia di Miuccia Prada e il genio di Rem Koolhaas hanno già trasformato in un classico dell’architettura museale del nuovo Millennio, restituendo a Milano un ruolo di primo piano nel panorama espositivo dell’arte contemporanea. Bella e soprattutto vestita in modo giusto, la gente che si aggira per le sale.

Tuttavia, per non rimanere sopraffatti di fronte a tanta ineffabile bellezza e per non soccombere alla sensazione che «la vita in noi si è esaurita», come capitò a Stendahl visitando la Chiesa di Santa Croce a Firenze, dobbiamo aggrapparci a quelle piccole imperfezioni, a quelle lievi stonature che pure si affacciano qua e là in un quadro a prima vista impeccabile. Solo così possiamo tornare con i piedi saldamente per terra e sottrarci al senso di vertigine provocato da un eccesso di bellezza che rischia di travolgerci. In qualche modo dobbiamo fare anche noi come ha fatto per tutta la vita lo stesso Gnoli, il quale parlando della propria pittura diceva: «mi servo sempre di elementi dati e semplici, non voglio aggiungere o sottrarre nulla. Non ho neppure avuto mai voglia di deformare: io isolo e rappresento. I miei temi derivano dall'attualità, dalle situazioni familiari della vita quotidiana; dal momento che non intervengo mai attivamente contro l'oggetto, posso avvertire la magia della sua presenza».

È proprio nella discrepanza tra questa dichiarazione di poetica dell’artista e le scelte allestitive che ci sembra di cogliere una prima, quasi impercettibile, ma alla prova dei fatti profonda incrinatura in un quadro apparentemente perfetto. La grande forza della pittura di Gnoli, in modo particolare quella della piena maturità stilistica, a cui l’artista romano giunge intorno alla metà degli anni Sessanta dopo essersi lasciato alle spalle una lunga e fortunata carriera di illustratore, sta nell’apparente semplicità di un gesto che prende un minuscolo e insignificante dettaglio dall’universo della propria quotidianità, lo isola dal suo contesto e ingrandendolo, lo proietta in una dimensione monumentale in cui si avverte però la sottile vibrazione di un’eco metafisica. I quadri di Gnoli non sono altro che isole solitarie circondate dal nulla, banalissimi frammenti di mondo che fluttuano affermando la loro irriducibile e misteriosa presenza in un vuoto cosmico assoluto dentro il quale aprono, come aveva ben capito Calvino, nuove infinite potenzialità narrative. Da qui nasce appunto la loro «magia».

Purtroppo l’allestimento progettato dallo Studio 2x4 di New York non sembra avere saputo cogliere e preservare pienamente questa magia. Troppo fittamente accostati sulle pareti secondo un ordine dettato dai soggetti rappresentati, i quadri finiscono per essere sottratti alla loro insularità metafisica per tornare dentro la logica narrativa prodotta dall’inevitabile articolazione sintattica che la loro vicinanza produce. L’eccessiva densità dell’accrochage determina una rottura dell’isolamento in cui è confinata ogni singola immagine, contraddicendo il gesto iniziale dell’artista e attenuandone la misteriosa forza evocativa.

Se la scelta di articolare l’allestimento per raggruppamenti tipologici (le scarpe, le cravatte, le scriminature) è riconducibile direttamente a Germano Celant, ovvero a chi questa retrospettiva ha avuto il merito di concepirla e immaginarla, anche se poi a causa del Covid non l’ha potuta portare a compimento, chi ne ha completato il lavoro dopo la sua morte non ha probabilmente capito che nel caso di ogni mostra le ipotesi iniziali vanno verificate ed eventualmente corrette, se non addirittura capovolte, in fase di allestimento. Siamo certi che con l’intelligenza critica e la sensibilità spaziale che lo hanno sempre caratterizzato, Celant avrebbe saputo correggere un’ipotesi di lavoro, mentre chi ne ha ereditato il compito forse non ha avuto la forza di misurarsi con la sua auctoritas.

Nell’enfasi attribuita alla serialità dall’allestimento traspare forse anche l’inconscio intento di sottrarre il percorso singolare di Gnoli al provincialismo italiano per collocarlo in un contesto internazionale che in quegli anni era, come ben sappiamo, dominato dalle ripetizioni della Pop Art americana. Un intento di fondo che in qualche modo si avverte anche nella bella (e come poteva essere altrimenti) pubblicazione bilingue realizzata per l’occasione, in cui il catalogo delle opere si alterna a un ricchissimo apparato biografico e cronologico, vero e proprio marchio di fabbrica celantiano fin dai tempi della mostra Identité italienne del 1980. Sfogliandone le pagine scopriamo infatti che a farla da padrone è l’inglese, mentre l’italiano è relegato in una compressa e quasi clandestina sezione finale.

Eppure, come ci ricorda anche il bel (l’avevate ormai intuito) saggio di Salvatore Settis, la pittura di Gnoli è profondamente radicata nella tradizione della pittura italiana. La sua materia pittorica impastata di sabbia che ricorda la superfice di un affresco, i suoi colori dai toni smorzati e gli accordi cromatici ricchi e complessi, al di là di vaghe e superficiali assonanze, non hanno nulla a che vedere con le campiture ultrapiatte e i colori fluorescenti e senza memoria della Pop Art.

E allora forse è il caso di dirlo chiaramente, e di dirlo in italiano, la pittura di Gnoli ha un valore universale perché in essa sentiamo risuonare la storia, la storia straordinaria dell’arte italiana.