La Croisette è tornata

Cannes 2021 - Dopo un anno di pausa dovuto alla pandemia, una ricca selezione di film festeggia la 74ma edizione della celebre rassegna cinematografica francese
/ 19.07.2021
di Nicola Falcinella

Tantissimi film in una selezione extra large per celebrare il ritorno dei grandi festival di cinema ma anche per affermare la capacità attrattiva di Cannes, che vuole restare la maggiore vetrina internazionale. Il bilancio, mentre scriviamo a pochi giorni dalla chiusura e dalla consegna dei premi, è positivo: è già stato un successo realizzare la 74° edizione della manifestazione sulla Croisette dopo la rinuncia nel 2020. La pandemia si è fatta sentire, con meno accreditati e pubblico, mascherine obbligatorie alle proiezioni e negli spazi al chiuso, anche se non sono mancati affollamenti e resse, per esempio per la proiezione di The French Dispatch di Wes Anderson. La pellicola del regista texano era una delle più attese, per via dell’autore, della presenza di tante star (Bill Murray, Tilda Swinton e tanti altri), ma anche per essere stata tenuta ferma un anno per venire a Cannes, stessa scelta compiuta da Tre piani di Nanni Moretti e Benedetta di Paul Verhoeven.

A dispetto della quantità, non sono molti i titoli parsi memorabili in questi giorni. Tra i 24 del concorso è difficile che non figurino nel palmares finale tre opere: Drive My Car di Ryusuke Hamaguchi, lanciato da Locarno con Happy Hour e premiato a marzo a Berlino per The Wheel of Fortune and Fantasy; A Hero dell’iraniano Asghar Farhadi, noto per il premio Oscar Una separazione; il francese Les Olympiades di Jacques Audiard, che già vinse la Palma d’oro con Deephan.

Farhadi è tornato a lavorare in patria dopo la deludente trasferta spagnola per Tutti lo sanno con Penelope Cruz e Javier Bardem, ritrovando l’ispirazione dei suoi momenti migliori. L’eroe del titolo è Rahim, detenuto per debiti, che vuole sfruttare una breve licenza premio per restituire la somma dovuta e farsi liberare. L’occasione sembra arrivare quando la sua nuova fidanzata trova alla fermata dell’autobus una borsa contenente preziosi. Accantonata la tentazione di impossessarsene e rivenderli, l’uomo decide di mettere un annuncio per ritrovare la proprietaria dei beni. Dopo che questa si è presentata, Rahim diventa un modello di onestà ed è intervistato dalla televisione diventando una celebrità. Un’associazione che aiuta i detenuti raccoglie, tramite una colletta, parte della cifra necessaria, ma il creditore non si accontenta e non si fida del protagonista. È l’inizio di una catena di sospetti e dubbi su quanto accaduto. Farhadi, ispirandosi ancora al neorealismo e con una grande capacità di scrittura e di ribaltare le situazioni, procede per piccoli smottamenti progressivi, smontando le certezze che si creano e mostrando sempre nuove facce della realtà. A Hero è un racconto morale di piccoli e grandi dilemmi che coinvolgono tutti i personaggi, giacché ciascuno incide con le proprie azioni e le proprie parole.

Si conferma Audiard, che cambia ancora stile per mostrare un altro lato della Francia multiculturale. Siamo nel quartiere di Les Olympiades nel XIII° arrondissement di una Parigi che il regista guarda spesso dall’alto (come già in Deephan, ma esteticamente più curato), ma in maniera poco canonica, evitando i luoghi turistici e riconoscibili. Camille è un insegnante di origine africana che risponde all’annuncio per un coinquilino da parte di Emile, una giovane cinese che lavora in un call center nonostante la laurea. Dopo una breve e intensa relazione, l’uomo lascia la casa e prende in gestione un’agenzia immobiliare. Qui arriva Nora, che ha lasciato l’università dopo che a una festa è stata scambiata con un’attrice porno dai compagni e fatta oggetto di cyberbullismo. È un film sulle relazioni, sulla precarietà esistenziale e lavorativa, sulle scelte, sull’appropriarsi della propria vita. Audiard sceglie un bianco e nero morbido ed elegante con il solo inserto a colori del video hard che causa lo scandalo. Il film funziona, mantiene una leggerezza di fondo e ha una marcia in più nella bellissima colonna sonora di musica elettronica di Rone.

È un buon film Bergman Island di Mia Hansen-Love, la francese nota per Il padre dei miei figli e Le cose che verranno, oltre che per la sua lunga relazione con il collega Olivier Assayas. La coppia formata dal regista Anthony (Tim Roth) e la sceneggiatrice Chris (Vicky Krieps) arriva sull’isola svedese di Faro, il rifugio di Ingmar Bergman che vi ambientò molti dei suoi lavori, in cerca di ispirazione, alloggiando nella casa che fu set di Scene da un matrimonio (1973), che «ha fatto divorziare milioni di persone», come spiega la guida. L’autore di Persona e Il settimo sigillo è la grande attrazione dell’isola e i due partecipano al Bergman Safari in mezzo ai turisti, mentre gli abitanti del luogo non conoscono o non apprezzano il loro connazionale. Quando Chris supera il blocco creativo e trova l’idea, inizia il film nel film, che mostra le vicende amorose della cineasta Amy che ritrova un ex fidanzato a una festa di matrimonio. Una situazione che ricorda l’ultimo Woody Allen, non a caso un altro bergmaniano di ferro, senza il suo nichilismo. La Hansen-Love trova la giusta leggerezza per trattare la materia amorosa e cinefile, senza appesantire con troppe citazioni.

Non manca di fascino The Story of My Wife dell’ungherese Ildiko Enyedi, che a Cannes vinse la Caméra d’or con il suo primo film Il mio XX secolo nel 1989 e nel 2017 ha vinto l’Orso d’oro di Berlino con Corpo e anima. Stavolta, partendo dal romanzo di Milán Füst, siamo negli anni 20 del 900 e il capitano di navi olandese Jacob Störr scommette con l’amico imprenditore Kodor (Sergio Rubini) che sposerà la prima donna che entra in un caffè. L’affascinante e misteriosa Lizzy (Léa Seydoux) incredibilmente accetta, e i due iniziano una relazione interrotta dalle frequenti assenze per lavoro del marito e contrassegnata dai reciproci sospetti di tradimento, che però contribuiscono anche a ravvivare un legame sul punto di andare in crisi.

La Seydoux, che aveva ben quattro film in selezione (gli altri sono France di Bruno Dumont e il buon Tromperie di Arnaud Desplechin dal romanzo di Philip Roth, uno dei miglior adattamenti dello scrittore americano), era anche nel cast di The French Dispatch

Veste, e non sempre, i panni di una secondina che diventa musa di un assassino che scopre in carcere una vocazione artistica. È uno dei tre capitoli in cui si divide il film di Wes Anderson, un omaggio al giornalismo del passato che sapeva trovare e raccontare storie. Arthur Howitzer jr, figlio di un editore del Kansas, convinse il padre nel 1925 a pubblicare un inserto redatto in Francia per giustificare il suo soggiorno europeo. Nella città immaginaria di Ennui-sur-Blasé, che ricorda un po’ i luoghi di Jacques Tati, si costituisce una redazione che negli anni racconta le proteste studentesche del ’68 e altri fatti. Il regista sceglie un’immagine quadrata retrò e passa in continuazione dal colore al bianco e nero, per un film stilizzato e con tocchi assurdi, che alterna momenti molto belli ad altri un po’ di maniera ed è piacevole senza aggiungere molto a quanto già fatto da Anderson.

Tra i film più ambiziosi del concorso il barocco Petrov’s Flu di Kirill Serebrennikov, mostrando violenza e confusione nella Russia della transizione post-comunista, con piani sequenza vertiginosi e belle canzoni rockeggianti in colonna sonora.