La storia, quella dell’industriale Emil Georg Bührle e della sua collezione, è nota, più recente invece le polemiche suscitate da quello che resta un capitolo controverso della storia nazionale. Della collezione Bührle si è occupata la commissione Bergier, ma anche recenti pubblicazioni, fra queste Il libro nero di Bührle (co-autore lo storico ed ex vicedirettore del Kunsthaus di Zurigo Vincenzo Magnaguagno) e nuovi impulsi li ha forniti anche il dibattito sul lascito della «collezione Gurlitt» al Kunstmuseum di Berna che ha dato avvio alla ricerca sulla provenienza dei beni culturali a livello nazionale.
Nell’imminenza della collocazione pubblica nella nuova ala del Kunsthaus di Zurigo di una parte dei 633 capolavori dell’Impressionismo che ne fanno una delle più importanti collezioni private al mondo – con capolavori di Renoir, Van Gogh, Monet, Gauguin (che avrebbe dovuto fare tappa anche al Masi nel 2020) – con un valore stimato a 3 miliardi di franchi, la città e il cantone di Zurigo hanno deciso di fare chiarezza sulla storia di una collezione costituita da Bührle fra il 1936 e il 1956 e portatrice di una pesante eredità.
Un incarico politicamente gravoso che viene affidato all’Università di Zurigo nel 2017 e che nel novembre scorso sfocia in un rapporto di duecento pagine. Per la prima volta si documenta e analizza nel dettaglio l’ascesa dell’industriale Emil Georg Bührle, cittadino tedesco giunto in Svizzera nel 1924 per riorganizzare la WO (Werkzeugmaschinenfabrik) e che ben presto si concentra sull’esportazione di cannoni alla Germania nazionalsocialista prima e durante la guerra. In pochi anni la OW diviene la maggiore industria di armamenti in Svizzera, e Bührle – ormai unico azionista e in possesso del passaporto svizzero – l’uomo più ricco del paese: fra il ’38 e il ’45 il suo patrimonio passa da 8 a ben 162 milioni di franchi. Dalle ricerche emerge la figura di un opportunista senza scrupoli, che dopo la guerra, non esita a espandere le sue attività commerciali negli Stati Uniti, impegnati nella guerra di Corea.
Bührle nel frattempo ha avviato anche la sua carriera di collezionista, approfittando di un mercato inondato dalle opere d’arte confiscate o vendute da ebrei costretti alla fuga o perseguitati durante la guerra. Sulle 633 opere che conta la collezione, 13 quelle restituite da Bührle ai loro proprietari dopo la guerra, perché frutto di spoliazioni. La questione sulla provenienza delle opere ribadisce con forza dal canto suo Lukas Gloor, direttore della Fondazione (e curatore di un recente catalogo generale della collezione) è già stata chiarita in passato; dal canto loro gli storici dell’Università di Zurigo non intendono ridurre la ricerca a una mera questione di passaggi di proprietà.
La ricchezza di imprenditore e il suo mecenatismo (l’industriale diviene vicepresidente della società di belle arti di Zurigo e finanzia il primo ampliamento del Kunsthaus inaugurato nel 1958) spalancano a Bührle le porte dell’élite zurighese: nuove fonti dimostrano gli intrecci fra la vendita di armi, l’acquisizione delle opere d’arte e l’ascesa sociale ed economica del collezionista-industriale.
Ma la questione era e resta delicata; lo prova il fatto che ancora prima della pubblicazione lo studio ha dato adito a polemiche e conflitti interni al gruppo di ricercatori che hanno portato alla dimissione di Erich Keller. Lo storico ha contestato che lo studio fosse il frutto di un lavoro indipendente e libero da pressioni istituzionali; l’errore sarebbe stato affiancare una commissione di controllo (dove siedono membri della stessa fondazione, della famiglia e del Kunsthaus) che ha in effetti proposto emendamenti e modifiche. Tre in particolare i passaggi non graditi: il termine «Freikorps», utilizzato per indicare i corpi franchi Roeder, di cui Bühler aveva fatto parte in Germania nel primo dopoguerra; l’espressione «insulto antisemita» per definire una frase di Bührle in una lettera a un giornale satirico; un terzo punto riguardava i benefici finanziari ottenuti grazie ai «lavori forzati» in Germania.
Modifiche dapprima integrate e accolte dai ricercatori, ma poi ritrattate, in seguito ai rapporti di due esperti indipendenti, incaricati sempre dall’ateneo zurighese, ormai nella posizione di dover scagionare i suoi ricercatori dalle accuse di aver ceduto a pressioni politiche. Pur riconoscendo la portata e la qualità scientifica della ricerca (una «pietra miliare» l’ha definita anche Corine Mauch, sindaca di Zurigo), uno di loro ha tuttavia osservato che la libertà e l’indipendenza istituzionali richieste da un tale progetto non sono state garantite, considerata la delicatezza politica del tema.
Col senno di poi è stato un errore affiancare una commissione di controllo, ha ammesso dal canto suo Mauch che ora dice di voler seguire con attenzione l’allestimento delle oltre duecento opere della controversa collezione nei nuovi spazi del Kunsthaus; dal museo zurighese, che si appresta a diventare una delle più prestigiose istituzioni al mondo per l’Impressionismo, ci si attende che assuma le proprie responsabilità, proponendo al pubblico una presentazione attenta al contesto storico, non soltanto agli aspetti estetici, per sgombrare il campo dal sospetto di essere quel «museo contaminato» che è il titolo dell’atteso saggio di prossima pubblicazione di Erich Keller.