Il lavoro, le migrazioni, il sindacato, la formazione, i viaggi... e poi l’opera poetica. Leonardo Zanier, per tutti Leo, da poco scomparso, si è mosso in questo quadrante, dalla Carnia – dov’era nato nel 1935, precisamente a Maranzanis, frazione di Comeglians – al Marocco, da Zurigo a Roma, da Udine a Riva San Vitale. Personaggio vitale, esuberante, incontenibile, Zanier è stato uno dei protagonisti delle campagne antirazziste degli anni 60 e 70 del Novecento, nel clima cupo delle iniziative Schwarzenbach. Tecnico edile di formazione, Leo era un agitatore d’idee; l’aspetto era quello di un anarchico dell’Ottocento, il cappello a tesa larga, la voce profonda, arrochita dal fumo delle sigarette, la risata fragorosa. Nel triangolo industriale svizzero spirava una brezza ostile; le famiglie operaie, perlopiù di origine meridionale, scendevano dai treni privi di nozioni linguistiche e professionali, per ammassarsi nei sobborghi urbani, spesso privi di servizi, di ritrovi, di scuole.
Da queste emergenze sociali scaturì impetuoso il bisogno di reagire, non soltanto per contrastare le campagne xenofobe, ma anche per mettere in cantiere un progetto di emancipazione fatto di recupero scolastico, corsi serali, riqualificazione professionale, in collaborazione con la Federazione delle Colonie libere e con la Cgil, sindacato che nel campo formativo già vantava una lunga esperienza. Fu così possibile tessere una rete di proposte sotto l’egida dell’Ente confederale per l’addestramento professionale (Ecap). Zanier, vulcanico come sempre, non mancava mai di insistere sulla formazione, sulla conoscenza, sulla cultura, gli unici strumenti in grado di sconfiggere l’ignoranza e preparare il riscatto.
Come detto, Zanier proveniva dalla Carnia, zona montagnosa del Friuli, regione di spopolamento, case svuotate dall’emigrazione: «una cjasa dos cjasas / dis cjasas scieradas...». Non c’è idillio, nel poetare di Zanier, ma l’arida elencazione dei mali che hanno dissanguato la montagna, scaraventando i contadini carnici nel vasto mondo. Disperazione, fuga, ma anche volontà di cambiare, anche motivo per alimentare una coscienza collettiva e, in ultima analisi, un programma politico.
Che cos’è l’emigrazione? Ecco la domanda battente, l’interrogativo che s’infila nei versi, negli articoli, nelle conferenze, dalle poesie di Libers... di scugnî lâ del 1960-1962 alle Risposte ai ragazzi di Fagagna, del 1973, ristampato dalle edizioni Alternative nel 1975. Interrogativo semplice, risposta complessa: «quello che ho cercato di dirvi / è solo uno schema della realtà / la realtà si muove / anche grazie a voi / la muoviamo assieme / si muove anche in Friuli». Nessuna rassegnazione: «non serve piagnucolare / sull’emigrazione / né dobbiamo permettere / a nessuno di piangerci sopra».
Molte le opere apparse sul filo degli anni, tra opuscoli, antologie, raccolte e libriccini, testi ripresi riscritti ripensati riveduti, testimonianza di un impegno costante e tenace, da montanaro cresciuto tra le capre, sempre a cavallo di qualche confine, visibile o invisibile. E il tema della frontiera, del cippo, del termine («cjermin»), poi trapassato in quello, oggi ossessivamente presente, dell’identità, che Zanier evoca in numerose liriche ma che finisce per condannare come artificioso. «Sa dire le cose con un’icasticità robusta – ha osservato Carlo Sgorlon dopo aver letto Libers... di scugnî lâ –, sa infondere nel suo verso un ritmo iterativo e scolpito, una cadenza forte che possiede il gusto della contrapposizione, della frase secca costruita con modi epigrammatici, incisivi, taglienti».
Il «termine» non è un ostacolo ma un’interfaccia, un’occasione d’incrocio, di contaminazione, di trasgressione. Di qui il ricorso al friulano carnico non come semplice lingua del cuore, intima ed esclusiva, ma come grembo destinato ad accogliere le parole dell’altro. Ecco che allora il vernacolo diventa linguaggio universale, capace di integrare altre lingue, altre espressioni, dal tedesco al francese allo sloveno, sull’onda di uno slancio vitale che ricorda il gramsciano ottimismo della volontà. Perché «doman non è una peraula / doman a è la speranza», domani... «non è una parola, domani è la speranza, non abbiamo che lei, usiamola, facciamola diventare mani, occhi e rabbia e vinceremo la paura».