«Mahler, pur affrontando tragedie, aggiunge ai toni disperati sfumature grottesche, guizzi di humor, un po’ come fa Kafka in certe sue novelle: ci sono la risata e il sorriso che accompagnano questo mondo di tristezza e lo rendono più comprensibile. Mahler potrebbe essere un Kafka in musica: è triste, disperato, orribile, ma anche grottesco, pieno di umorismo e ciò rende le sue note enigmatiche e più interessanti».
Non si è ascoltata per intero la prima frase e già si capisce quanto a fondo Christian Gerhaher spinga la sua riflessione sull’universo liederistico del boemo, di cui darà saggio giovedì 24 novembre, accompagnato dall’OSI e da Markus Poschner, in sette titoli tratti dal celeberrimo Das Knaben Wunderhorn, tra cui Das irdische Leben, Rheinlegendchen e Wo die schönen Trompeten blasen. Il cinquantatreenne baritono tedesco è apprezzatissimo tanto nel repertorio teatrale, in particolare mozartiano (debuttò al Festival di Salisburgo come Papageno nello Zauberflöte) e wagneriano, quanto in quello liederistico, di cui è considerato un erede del mitico Fischer-Dieskau, nonostante all’inizio il loro rapporto fu rocambolesco: «Una volta partecipai a una sua masterclass a Berlino e alla fine mi invitò a chiamarlo. Lo feci qualche tempo dopo, mi propose una data per un incontro, ma coincideva con un esame di medicina e declinai; me ne indicò una seconda, ma era la stessa di un altro esame; si mise a brontolare e mi consigliò di focalizzarmi sui miei studi universitari e proseguire col canto solo a livello amatoriale. Sei anni dopo gli inviai una copia del mio disco dello Schwanengesang di Schubert; mi scrisse entusiasta. Avevamo riallacciato il rapporto».
Schubert, Schumann e Mahler sono i suoi autori prediletti, ma a differenza dei primi due il terzo «è stato un approdo maturo, perché è difficilissimo: ritengo che cantare Mahler sia la vetta del percorso di un cantante, dal punto di vista sia tecnico sia interpretativo. Anche perché ci sono «tanti Mahler» e cambia se ad accompagnare la voce è un pianoforte, come in Schubert, o un’orchestra come quella che lui indica: una policromia dove gli strumenti si uniscono per creare tinte incredibili e la sfida per il cantante è intonare la voce a quei toni». Per approfondire gli elementi che in Mahler materiano il contrastante connubio tragedia-grottesco, Gerhaher premette un’inquadratura storica: «Dobbiamo ricordarci che nell’Ottocento non era certo raro vedere i propri figli morire: capitò a Bach, a Goethe addirittura sei volte. Per noi oggi è davvero arduo immedesimarci nei sentimenti che dovevano provare quei padri e quelle madri. Io stesso sono padre di tre figli e quando canto certi Lied mi ritrovo come sull’orlo di un abisso, di un mistero. Ebbene, Mahler leva ogni cortina davanti alle crudeltà e alle stranezze della vita, le vuol far vedere». Compito dell’interprete è trasmettere al pubblico come Mahler lo fa: «Se guardiamo superficialmente al tessuto narrativo i suoi Lied possono sembrare semplici, ma analizzandoli più attentamente si scopre che si intrecciano fonti letterarie e influenze musicali diverse, messe insieme secondo un processo che definirei di pittura moderna e concettuale: Mahler non cerca di fonderle in modo coerente, piuttosto procede in modo frammentato, per associazioni, quasi come fosse pittura impressionista; e in questo è molto moderno. Era moderno anche come direttore d’orchestra: ad esempio presentava certe composizioni ammettendo di non capirle pienamente, ma affermando che l’arte dovesse essere sostenuta anche quando non fosse compresa».
L’audacia delle proposte e la libertà delle scelte artistiche è un tema che appassiona Gerhaher: «Mi piace come un’arte indipendente e rischiosa quale è la musica venga vissuta in Germania, in Austria e in Svizzera: viene vista come un investimento e non come un sussidio. Questo modo di intenderla permette di sganciarsi dalla logica del puro intrattenimento o del successo immediato, dà il coraggio di mettere in cartellone musiche non scontante; è triste osservare certe stagioni pubblicizzare la prima sinfonia di Mahler come il titolo più audace, mentre ad esempio la sua sesta o settima sinfonia sono ben più complesse». Come complessa è la comprensione dei Lied: «Il Lied non è un dramma come l’opera lirica, né una narrazione come l’Oratorio, è qualcosa di indefinibile, di illogico, grottesco: Mahler pretende di raccontare una storia, ma non lo fa mai; procede per associazioni che appaiono e si dissolvono come nuvole, pensieri che si sovrappongono ad altri, rendendone difficile la comprensione. Nel Wunderhorn c’è un dialogo tra un uomo che canta all’acuto – note impossibili da rendere con una tinta scura – e una donna che gli dà una risposta erotica, ma dai tratti mascolini. È illogico, grottesco, meravigliosamente mahleriano».