«Quando ho iniziato a rendermi conto che mio padre era un importante violoncellista? Quando la gente ha iniziato a chiedermi come fosse vivere in casa con un grande violoncellista… Per me Clemens è sempre stato un bravo papà; certo, lo sentivo esercitarsi, si assentava anche a lungo per le tournée, ma poi, quando era con noi, faceva quello che fanno i padri di tutto il mondo».
Eppure, alla fine, Julia ha seguito le orme di Clemens Hagen, fondatore e anima di uno dei quartetti più celebrati nel firmamento concertistico internazionale, e che tra l’altro porta il nome di famiglia: Quartetto Hagen. Nata a Salisburgo, la città di Mozart, 28 anni fa, perfezionatasi al Conservatorio di Kronberg (fortuita coincidenza, lo stesso di Anastasia Kobekina, la violoncellista che l’ha preceduta sul palco del LAC nella stagione della Osi), la talentuosa violoncellista austriaca è solista in uno dei più bei concerti mai scritti per il suo strumento, quello di Dvorak. «Come scrisse Victor Hugo, la musica esprime quello che le parole non possono dire; io non sono brava a parlare, le note mi aiutano a comunicare agli altri quello che ho dentro. Non parlo solo di classica: credo che ogni genere musicale, dal jazz al blues, dal pop al rock, abbia fondamentalmente questa funzione».
L’incontro con il violoncello è avvenuto per gioco: «Avendo entrambi i genitori musicisti potrei dire, poeticamente, che il mio incontro è avvenuto quando ero ancora nella pancia di mia madre, che sono nata e cresciuta immersa nella musica, quasi che il mondo dei suoni fosse un liquido amniotico spirituale. Può essere, però se devo rispondere citando ricordi e avvenimenti concreti, allora forse è meglio raccontare un’altra storia. Mi piaceva giocare a nascondino, uno dei miei rifugi preferiti era la custodia del violoncello di mio padre, molto più efficace della coperta che mi mettevo in testa quando ero piccolissima pensando che nessuno mi vedesse più: fu lì che quello strumento – all’epoca mi sembrava davvero enorme – iniziò a interessarmi, seppur per motivi ludici. Poi avevo due fratelli maggiori che suonavano e mi piaceva l’idea di condividere qualcosa con loro, e la cosa più semplice si rivelò essere la musica». A undici anni la crisi: «Non volevo più suonare, mi annoiavo terribilmente; lo confessai ai miei genitori, che non si opposero; mi dissero solo che avrei dovuto dirlo io al mio insegnante; non ebbi il coraggio e continuai… Dopo poco però mi trovarono un nuovo maestro al Mozarteum della mia città, Enrico Bronzi (solista e fondatore del Trio di Parma, ndr.): fu la svolta, rimasi travolta dalla sua passione per il violoncello e per la musica in generale, oltre che rapita dalla sua perizia nel farmi capire tanto gli aspetti tecnici quanto le questioni più squisitamente interpretative. Con lui decisi che non mi sarei più allontanata dal violoncello, e così è stato, fortunatamente».
Accanto a lui un altro maestro è stato Heinrich Schiff: «Lo ammiravo come solista, veniva anche a casa nostra a trovare papà; è stato straordinario potermi perfezionare con lui per due anni». Dopo quelle sui ricordi d’infanzia e sul percorso di studi, Hagen concede un’altra confidenza: «Quando ho iniziato a suonare in pubblico, tra i miei vezzi c’era quello di mangiare una banana col cinnamomo prima di salire sul palco; ero a Vienna, dovevo debuttare al Konzerthaus, avevo con me la banana, ma non il cinnamomo; ero nervosissima, mio fratello dovette girare non so quanti supermercati per trovarmelo; da allora ho deciso di ricorrere a strategie più comode da reperire; ora per rilassarmi, concentrarmi e darmi energia preferisco praticare yoga».
Nel frattempo, dopo il Konzerthaus, sono seguiti altri debutti fondamentali: all’altra sala mitica di Vienna, il Musikverein, sede del Concerto di Capodanno dei Wiener Philharmoniker con i valzer degli Strauss, la Suntory Hall di Tokyo e la Tonhalle di Zurigo. Imbraccia un prezioso Ruggieri del 1684, datole da un privato austriaco: «L’hanno dovuto letteralmente ricostruire, l’avevano anche immerso nella malta; ora ha un suono scintillante, un timbro caldo, una grande generosa cantabilità». La cantabilità probabilmente non sarebbe la prima caratteristica con cui descrivere la quinta sinfonia di Beethoven, che il nuovo Direttore Ospite Principale dell’OSI Krzysztof Urbański affronterà nella seconda parte del concerto; eppure è curioso ricordare come l’ispirazione per «le quattro note più famose della storia musicale» (copyright Leonard Bernstein) da cui scaturisce un vero big bang orchestrale fatto di ritmi e sonorità rapinose – emblema sonoro dello spirito prometeico beethoveniano e della sua titanica lotta contro «il destino che bussa alla porta» – fu il canto dello Zigulo giallo, un uccellino che Beethoven udì in un parco viennese; il compositore trascrisse il suo richiamo ricorrendo ai tre sol seguiti dal mi bemolle e scandì le quattro note con un ritmo che ancor oggi stupisce e folgora per forza e modernità.