La bacchetta di Lorenzo

A colloquio con la giovane promessa della musica losannese con radici italiane Lorenzo Viotti
/ 31.07.2017
di Enrico Parola

Lorenzo Viotti. Forse, anzi probabilmente sarà il nome di questo ragazzo nato 27 anni fa a Losanna, di origini italiane ma che l’italiano sta iniziando a parlarlo bene solo ora, ad aggiornare e allungare l’elenco dei grandi direttori d’orchestra svizzeri. Una sequenza nobile in cui si annoverano Ansermet e gli Andreae, Dutoit, Nussio, due pianisti mitici prestati anche al podio come Cortot e Fischer; ultimo dei grandi, ma solo in ordine di tempo, è stato Marcello Viotti, nato a Gressy nel 1954 e morto il 16 febbraio 2005, colpito da un ictus mentre dirigeva a Monaco, dove era stato guida stabile alla Staatsoper e della gloriosa Bayerisches Rundfunfks Orchester, dopo esserlo stato anche a Lucerna, Vienna e alla Fenice di Venezia. A prenderne l’eredità potrebbe essere il figlio: nel 2015 ha vinto il concorso Nestlé del più importante e ricco festival musicale al mondo, quello di Salisburgo; poche settimane fa è stato incoronato miglior direttore emergente agli International Opera Awards. È già salito sui podi di alcune delle più importanti orchestre europee, dalla National de France alla Gwandhaus di Lipsia, dalla Staatskapelle di Dresda alla londinese Royal Philharmonic; ma a differenza di tanti suoi colleghi è sì allettato ma non accecato dalle luci della ribalta: ha rifiutato ingaggi dai Wiener Symphoniker o dalla Scala perché non si sentiva pronto.

Ora, dopo aver portato in tournée l’orchestra dell’Accademia scaligera, debutterà nella prossima stagione con la Filarmonica e l’anno seguente sarà al Piermarini con l’opera, il Roméo et Juliette di Gounod. «Un titolo mai rappresentato alla Scala, sarà un doppio esordio». Un privilegio capitato a pochi eletti o fortunati, ma Viotti non tradisce una particolare emozione: «Certo, la Scala è leggendaria, è il tempio della lirica mondiale e non posso non considerarlo un onore; ma il punto non è il nome del teatro, conta innanzitutto il modo di lavorare e questo deve essere il medesimo alla Scala come in qualsiasi altro teatro».

Davanti a tanta serietà e maturità le ipotesi sono due: o è sincero o già conosce le frasi di circostanza che fanno parte di un profilo da sdoganare all’esterno. Pensando alle rinunce fatte, gli inviti dai Wiener e fino ad ora dalla Scala («cercavo anche il programma giusto, vorrei dirigere tutta la vita e vorrei evitare che ci si stanchi di me già quando avrò 40 anni» dettaglia), vien da propendere per la prima ipotesi. Anche perché non è banale il suo modo di intendere il rapporto con gli orchestrali: «Il punto è stabilire un’intesa immediata, credo che il lato umano conti molto in un mestiere come quello del direttore; a volta scatta subito, a volte ci vuole un po’ di tempo, a volte non succede e bisogna tirare avanti in qualche modo. È un po’ come il primo appuntamento con una ragazza: magari ti prepari il discorsetto, ma non puoi prevedere come andrà, come ti comporterai, soprattutto come reagirà lei e come poi tu reagirai alle sue parole. E qui stiamo parlando non di una donna sola ma di ottanta persone!»

Prima di raccontare della sua storia, Viotti tiene a sottolineare un ultimo concetto: «Non è più il tempo dei direttori autoritari alla Toscanini o alla Karajan, anche se per l’orchestra non sarà mai il tempo della democrazia: la responsabilità del concerto è del direttore, sue sono le scelte e quindi sua anche la colpa se qualcosa non funziona». Concetti che ha imparato guardando, ascoltando e vivendo col padre: «Ovviamente mi piacerebbe pensare di essere nato direttore, di aver ereditato tutto per via cromosomica, ma non è così. Ci sono stati tanti passaggi, tante svolte che mi hanno portato sul podio».

A sei anni ascolta il Pelléas et Mélisande di Debussy, opera morbosa e tortuosa, non certo Pierino e il lupo di Prokof’ev: «Ma me ne innamorai per le atmosfere sonore e i colori che sprigionava; lì decisi che avrei fatto il direttore per poter ricreare quella magia». La famiglia lo assecondò: «Devo ringraziare anche mia madre: rinunciò alla carriera di violinista per far crescere me e i miei tre fratelli, siamo diventati tutti musicisti: chi cornista, chi fagottista, chi con la bacchetta». Sentendolo parlare del padre, si intuisce il perché della sua visione del mestiere di direttore: non parla di Marcello dal punto di vista artistico o tecnico, ma umano: «Aveva una generosità straordinaria, trattava con eleganza e rispetto tutti, dalla diva, la cantante che s’atteggiava a primadonna, ai tecnici di scena. E fuori dal teatro era una persona eccezionale perché rimaneva normale: non aveva nessun atteggiamento divistico; io mi auguro di mantenere sempre la sua semplicità e la sua umiltà». Purtroppo più che impararle a lungo è costretto a ricordarle già da lontano: «È morto quando avevo 14 anni, ovviamente non ero pronto come non lo era nessuno in famiglia; ma lo ha fatto con la bacchetta in mano, mentre provava un concerto a Monaco: nella tragedia c’è comunque un seme di bellezza, quella che stava cercando anche in quel momento».

Non si nasce direttore e anche per Lorenzo i primi passi sono stati come strumentista: «Ho studiato percussioni a Lione e ho collaborato come percussionista con tante orchestre, anche con i Wiener Philharmoniker. È stata un’esperienza molto formativa non solo perché ho potuto vedere in faccia tanti grandi direttori, ma perché stare in fondo al palco, essere dietro a tutti gli altri musicisti mi ha permesso di capire la psicologia dell’orchestra, come le varie sezioni reagiscono alle indicazioni che vengono dal podio». Se dal padre ha imparato lo spirito del mestiere, ha foggiato la tecnica facendo l’assistente a giganti come Prêtre, Jansons e Haitink. Altro indubbio privilegio, «ma io so che il cognome non basta e che devo dimostrare tutto. E giù dal podio sono un normale ragazzo di 27 anni: amo la boxe, fare surf e il mare, soprattutto quello della Sardegna».