Hélène Grimaud ha dilatato la fama che il solo talento le avrebbe assicurato grazie agli splendidi occhi di ghiaccio e alla passione per i lupi («La pianista che balla coi lupi» è uno dei titoli più gettonati dalle riviste patinate che le hanno dedicato servizi e articoli). Patricia Kopatchinskaja è invece «la violinista scalza»: la (molto) talentuosa e (altrettanto) estrosa moldava che vive a Berna col marito neurologo e la figlia Alice di cinque anni ama salire sul palco con abiti eleganti, total black o sgargianti, ma rigorosamente senza scarpe.
Fu un caso, è diventata un’abitudine irrinunciabile, di certo – assicura – non è un vezzo. «Appena prima di un concerto mi accorsi di aver dimenticato le scarpe in hotel; non potevo tornare a prenderle né chiederle a qualche orchestrale e quindi decisi di suonare scalza. Mi trovai perfettamente a mio agio, provai una sensazione quasi animalesca: mi sentivo più radicata al suolo, più empatica con le vibrazioni create nel legno del palco dal suono». Soprattutto si sentì più sicura: «Prima di esibirmi in pubblico ero talmente nervosa – un po’ lo sono ancora – che talvolta dovevano letteralmente trascinarmi fuori dalla toilette; l’esibirmi scalza è stato terapeutico anche per questo».
Arrivata a 39 anni, ormai a una ventina da quei primi passi mossi sul red carpet del concertismo mondiale, dà a questa sua peculiarità un nuovo senso: «Non salgo su un palco per ripetere la lezioncina come un pappagallo, un concerto è la somma di tanti elementi: le note, la sala, i miei sentimenti e quelli del pubblico; suonare è come preparare una torta: gli ingredienti sono gli stessi, la ricetta non cambia, ma come esattamente uscirà dal forno, più o meno buona, perfetta o un po’ sformata, non lo si può dire in anticipo. E siccome per casa io giro scalza, non mettermi le scarpe ora mi dà anche la sensazione di invitare il pubblico a casa mia, metterlo comodo e preparagli davanti una buona torta». Così è Patricia, un’anticonformista che non ha paura delle sue idee: «Odio i farisei, voglio essere una studentessa per tutta la vita: non mi interessa fare tutto giusto, cerco idee originali, prospettive nuove; ma quando m’accorgo che il pubblico non le capisce ci rimango malissimo, mi sembra di cadere dal ventesimo piano».
È già capitato che il pubblico non apprezzasse le sue interpretazioni; d’altronde le sue sono idee forti, non possono lasciare indifferenti, costringono a prendere una posizione; come si suol dire, o le si ama o le si disprezza, senza mezzi termini. Ad esempio il suo pensiero sull’utilità della bruttezza: «È utile ascoltare talvolta musica non perfetta, non rifinita, non corretta, diciamolo: ascoltare momenti di musica brutta. Si può conoscere la pace senza saper nulla della guerra? Il bianco senza il nero, la salute senza la malattia? Una musica perfetta e uguale a se stessa sarebbe solo un noiosissimo kitsch». È troppo facile vendere i biglietti sfruttando il «fattore B» (così lei chiama Bach, Beethoven, Brahms, Bruckner e Bruch) e gli altri grandi classici, «ma io voglio sperimentare qualcosa di diverso; a chi mi dice che sia da folli rispondo che ogni tanto un po’ di pazzia è forse meglio della piatta normalità». Per questo «ho suonato tutti i brani più famosi, ma il concerto più eccitante, sfidante ed esaltante che abbia mai affrontato è quello composto da Ligeti nel 1992: sembra di entrare in un museo dove sono custoditi e rivisitati dieci secoli di storia musicale». L’ha suonato a gennaio, al suo debutto alla Scala; tanto per cambiare ha stupito tutti, mettendosi a cantare durante la cadenza: «È il momento in cui l’orchestra tace e il solista è libero anche di improvvisare; Ligeti non prescrive il canto ma neppure lo impedisce, quindi mi son detta: vuoi mettere che bello dire che anch’io ho cantato alla Scala? Niente grandi arie, ovvio: ho imitato la melodia dell’ocarina, presente nell’organico orchestrale per dare un colore tutto suo a questa pagina».
Fantasia e libertà: Kopatchinskaja le iniziò a declinare nella sua personalità fin dalla prima giovinezza: «Mamma e papà erano musicisti, suonavano in un gruppo folk e così in casa non esistevano spartiti; iniziò a usarli papà per permettermi di suonare con loro». Il quadretto domestico si trasforma in attività redditizia col trasferimento a Vienna: «Avvenne nel 1990, avevo tredici anni. Era crollato il muro e anche per la Moldavia, che era stata dominata da Romania e Unione Sovietica, si aprì un periodo tormentato; c’era tanta povertà, lì non c’era futuro, diceva mio padre, dovevo suonare e non comporre – la mia grande passione – perché scrivendo musica non si fanno soldi, mi ripeteva il mio insegnante. Andammo a Vienna, io suonavo con papà nei ristoranti e nelle chiese». Da lì alle sale da concerto il passo non fu lungo: «Ma non fui una bambina prodigio: entrai all’Accademia viennese a 17 anni, a 21 vinsi una borsa di studio e andai a Berna, dove vinsi il concorso del Credit Suisse».
Da lì la carriera esplose, anche se non secondo i canoni dello star system: «Fin dall’inizio ho evitato i concerti che in quel momento non sentivo nelle mie corde; quando mi offrirono ad esempio Dvorak e Brahms risposi: non hanno bisogno di me, non voglio disturbare quella musica suonandola». Ci sarebbero state mille ragioni (anche economiche) per accettare «ma la ragione è nemica dell’istinto e io suono seguendo l’istinto perché la musica serve per comunicare ciò che non si può esprimere con la logica e le parole».