«Bambini, fate cose nuove!» è un’esortazione di Richard Wagner in una lettera a Franz Liszt del 1852. E proprio questa frase è stata scelta per dare un titolo al Festspiel Open Air, il concerto all’aperto con cui si è pre-inaugurato il festival di Bayreuth la sera del 24 luglio. Nel parco del Festspielhaus è stato allestito un palco per l’orchestra e il direttore Markus Poschner, che insieme ai solisti Daniela Köhler, Magnus Vigilius e Olafur Sigurdarson, presenti in differenti produzioni del festival, hanno proposto una serie di brani musicali di autori diversi, da Wagner a Verdi, da Kurt Weill agli Aerosmith, davanti al pubblico accorso numeroso con sedie, tovaglie da picnic, coperte.
Una festa per dare il via alla manifestazione che ogni anno porta wagneriani appassionati nella piccola città della Baviera settentrionale, un concerto offerto gratuitamente e apprezzato dai più. Fare cose nuove sembra essere l’imperativo e l’obiettivo del teatro di regia che la direttrice artistica Katharina Wagner persegue con il suo mandato – senza dimenticare che il teatro sulla collina verde nasce con il crisma della sperimentazione impresso dallo stesso Wagner.
La nuova produzione di quest’anno, Parsifal, diretta dal regista americano Jay Scheib, ribadisce questa tendenza alla «novità» presentandosi innanzitutto come spettacolo da fruire attraverso gli occhiali A/R (Augmented Reality), che permettono di vedere cose non presenti in scena e di allargare la propria visuale ai lati, sopra e sotto, ma che possono essere d’intralcio alla visione dello spettacolo dal vivo. Se si considera poi che, per una questione di costi, solo 330 spettatori su quasi 2000 possono vedere lo spettacolo attraverso gli occhiali A/R, c’è da chiedersi quale sia il senso dell’operazione. Ma per chiarire meglio la funzione degli occhiali, è bene riconnettersi all’idea registica di Jay Scheib, non facile da ricostruire se non si è letto il programma di sala. Nella vicenda narrata da Wagner, il Graal è oggetto di culto, in particolare per la comunità che lo custodisce e ne rinnova i salutiferi effetti attraverso la ripetizione del rito dell’ultima cena di Gesù. Il re di questa comunità, Amfortas, è caduto in peccato carnale con Kundry nel giardino del mago Klingsor, il quale gli ha rubato la lancia che ferì Cristo sulla croce, provocandogli una ferita insanabile. La comunità aspetta dunque l’arrivo di colui che recupererà la sacra lancia per riportare ordine e armonia, Parsifal.
Nella visione di Scheib si tratta di una comunità di minatori che lavorano per estrarre un minerale prezioso, il cobalto, con cui si producono batterie per cellulari, macchine elettriche e molto altro, generando una montagna di rifiuti. Il tema dell’inquinamento ambientale è centrale nello spettacolo: siamo bombardati, noi che portiamo gli occhiali A/R, da una quantità di spazzatura, bottiglie e sacchetti di plastica, batterie usate, elettrodomestici che piovono sulle nostre lenti, venendoci incontro minacciosamente, e siccome gli occhiali ampliano la visuale, possiamo vedere sotto di noi una pianura arida senza elementi vitali, se non una povera volpe che volge lo sguardo su tanta desolazione. Una natura snaturata dal nostro consumismo tecnologico. Dal momento che il cobalto è il Graal, ne consegue che il Graal non è cosa buona, perciò Parsifal libera la comunità da questa schiavitù gettando per terra e distruggendo il blocco di cobalto che ha fra le mani.
Il progetto del regista si realizza attraverso le scene di Mimi Lien con un primo atto tutto blu, un elemento verticale che ricorda la stele di 2001 odissea nello spazio, e un elemento che scende dall’alto in forma di aureola evocando altro cinema di fantascienza. Il coloratissimo giardino di Klingsor è una visione kitsch degli anni Settanta con fanciulle hippie, e manciate di fiori che cascano davanti alle nostre lenti impedendoci di assistere al duetto fra Parsifal e Kundry. Naturalmente gli occhiali si possono togliere, se si vuole assistere allo spettacolo dal vivo senza l’ausilio della «realtà aumentata», e quello che ho visto fare – e ho fatto io stessa – è stato mettersi e togliersi gli occhiali a seconda delle scene e dei propri desideri. Nel terzo atto compare una macchina che è una via di mezzo tra una scavatrice e un carrarmato. I colori sono sempre molto forti, l’estetica è di stampo americano, pop. Lo spettacolo è stato fischiato alla «prima», ma non sono mancati gli applausi per gli interpreti: per Andreas Schager, saltato nella produzione all’ultimo momento in sostituzione di Joseph Calleya infortunato. Un Parsifal ragazzo in pantaloni corti rossi, che offre un’interpretazione convincente e carica di passione. Lo stesso si può dire di Elina Garança, Kundry dalla voce potente e vellutata, vera interprete e forte presenza scenica (purtroppo insaccata nei brutti costumi di Meentjie Nielsen), così come il grande Georg Zeppenfeld, che è Gurnemanz, in pareo giallo e scarponi da montagna, irretito dall’alter ego di Kundry, quasi il regista volesse dissacrare il personaggio in ogni modo. Ebbene, questo magnifico interprete riesce a mantenere nobiltà ed eleganza, perché è proprio questo che la sua voce e la sua presenza trasmettono.
Pablo Heras-Casado, applaudito con calore e simpatia, non ci ha consegnato un Parsifal indimenticabile, ma certamente apprezzabile. Ho assistito anche al Tristan und Isolde che l’anno scorso ha visto salire sul podio a sorpresa il nostro Markus Poschner, a seguito di una serie di sostituzioni dovute a malattia. Spettacolo che ha accontentato critica e pubblico, sobrio ed essenziale nelle scene eleganti di Piero Vinciguerra, con impianto unico e diversamente elaborato nei tre atti, un ovale che diventa piscina, giardino, non-luogo in cui si riverberano le passioni dei due protagonisti. Tristano è l’americano Clay Hilley, che lo scorso anno «salvò» il Ring sostituendo Stephen Gould a ventiquattro ore dalla prima, e che in effetti è apparso più convincente nel ruolo di Sigfrido. Isolde è l’inglese Catherine Foster, già Brünnhilde nel Ring di Castorf e ora anche in quello di Schwarz, voce efficace ed espressiva. Il momento migliore per i due amanti è il duetto del secondo atto, morbido, quasi sussurrato, ben risolto sul piano scenico. La vera sorpresa è alla fine, con il Liebestod, quando dal fondo della scena emerge una coppia anziana e Isolde si mette da parte indicando l’amore domestico in alternativa all’amore straordinario di Tristano e Isotta. Siamo lontani da Wagner, ma il pubblico non protesta, anzi applaude, dimostrando che, con un’estetica gradevole, si può far accettare una lettura poco ortodossa. Poschner rinnova il successo dell’anno precedente, e davvero la sua conduzione è carica di pathos e nel contempo in equilibrio con le voci dei cantanti, coinvolgendo il pubblico in un crescendo dal lirismo del secondo atto alla drammaticità del terzo. L’anno prossimo a Bayreuth assisteremo a una nuova produzione di Tristan und Isolde, che vedrà sul podio Semyon Bychkov. E intanto il festival continua fino al 28 agosto.