Fra le quaranta regole di scrittura che Umberto Eco ha elencato nella sua celebre rubrica La bustina di Minerva pubblicata da «L’Espresso», ce n’è una in particolare che ci ricorda come ne abbiamo spesso ignorato il dettato per i nostri scritti: Non usare mai il plurale maiestatis. Per l’occasione, toute proportion gardée, voglio violare il patto stipulato con me stesso e approfittare dello spazio concesso per un ricordo personale di Ketty Fusco, briciole di memoria che conservo nel cuore. Spero mi venga perdonata l’affettuosa familiarità, ma per me Ketty, venuta a mancare pochi giorni fa, non è stata solo la persona di cui si è scritto e detto riconoscendone l’indubbia personalità artistica e culturale di attrice, regista e sensibile poeta. La sua figura mi riporta ai primi anni luganesi quando, alla fine degli anni 60 da adolescente liceale, grazie alle leggendarie porte aperte di casa Canetta, mi sentivo quasi adottato, anche da lei, e circondato da atmosfere uniche per molte mie giornate di esule spesso solitario.
Un clima che mi ha segnato anche dopo aver visto la Maddalena di Ketty in Amedeo o come sbarazzarsene di Ionesco. Rimasi subito colpito dalla sua straordinaria bravura ed eleganza. Fra i primi spettacoli visti al Teatro Kursaal, sebbene inesperto, l’avevo giudicato alla pari di compagnie ben più blasonate. Si vede che si era già insediato il tarlo per la scena, sebbene mi rodessi il fegato per non poter partecipare al gruppo teatrale di studenti liceali animato in quegli anni da Alberto Canetta con allestimenti impegnativi.
Ma vado a braccio: un’altra briciola è del 1974, un anno dopo il golpe militare cileno di Pinochet. Centinaia di profughi arrivarono in Ticino e vennero ospitati da famiglie ticinesi. Fra le varie iniziative per raccogliere fondi a loro sostegno venne organizzato un reading itinerante di poesie di martiri della Resistenza lette da attori della Rsi. C’ero anch’io, contribuivo con un modesto apporto musicale. Ketty era la regina. La sua voce conquistava l’anima. Veniva accompagnata dall’inseparabile marito Francesco Bertola e alla fine mi aggregavo a loro per il viaggio di rientro, accompagnato dai consigli di due persone dalla straordinaria umanità, saggezza e vivacità intellettuale. Così come sento ancora vivo il ricordo, dieci anni più tardi, delle lunghe trasferte con il Teatro della Svizzera italiana con due atti unici di Max Frisch: palestre, sale parrocchiali, spazi spesso improvvisati, ma vissuti da Ketty con signorilità, professionalità e umiltà.
Cara Ketty, sento risuonare la tua inconfondibile voce, rivedo la tua affettuosa considerazione nei miei confronti, per me così importante. Oggi alimenta un’intima e sincera commozione.