Un verso di N95, la seconda traccia del nuovo album di Kendrick Lamar, uscito lo scorso 13 maggio, riassume solo una delle cause care al rapper di Compton: «The black and the white, the wrong and the right» (il bianco e il nero, il giusto e lo sbagliato, ndt). Fra i paladini di Black Lives Matter, K-Dot infatti non poteva fermarsi a una sola issue. E ben lo raccontano le 18 tracce di Mr. Morale & The Big Steppers, fra gli album più attesi dell’anno e meglio accolti dalla critica (come sempre, d’altronde), ma anche con le maggiori aspettative e il minor investimento promozionale immaginabile. I profili social di Lamar, infatti, sono stati fermi per mesi, e lui si è limitato a qualche singolo o featuring, conducendo una vita come sempre distante anni luce dai riflettori (in netto contrasto con tutta la scena rap e trap, che dei riflettori e di tutto ciò che risplende e luccica ha fatto la propria ragione di vita), quasi circondato da un alone di mistero.
La pressione derivante dall’essere ormai oltre il mainstream di trap e rap – ancorati a temi e linguaggi triti e ritriti, in qualunque lingua si esprimano – è dichiarata all’inizio di United in Grief (Uniti nel dolore): «I been going through something / 1855 days» (Ho attraversato qualcosa / 1855 giorni), che sono poi il tempo che si è preso per mettere su famiglia e scendere a patti con la condizione di afroamericano. Ne risulta, in un’ora di musica, un vibrante e ipnotico miscuglio di jazz, funk, gospel, pezzi recitati (come We Cry Together) e basi Anni 90 che ricordano un certo 2Pac, ma sempre sulla linea di un rap teso, contraddistinto da un flow vertiginoso e inconfondibile.
Come è stato detto nella trasmissione Rap Life Review (YouTube), questo album va ascoltato «lontano dalla società», là, dove con tutta probabilità è nato. Non può e non deve fare da sottofondo, né per i suoi contenuti, né per la struttura formale, poiché va sviscerato e interpretato, alla scoperta di un discorso in musica complesso e doloroso. E Lamar lo fa partendo dalla propria storia, che affonda le radici in vicende famigliari di abusi (quello subito da sua madre), di queerness (come in Auntie Diaries), di salute mentale e di relazioni sentimentali tossiche. Ma si parla anche della pressione derivante proprio dal fatto di essere così bravo e unanimemente rispettato, come in Savior, dove dichiara che sì, Kendrick fa riflettere, ma non è il nostro salvatore. Ed è forse per questo che, sulla copertina, alla corona di spine del Salvatore, è accostata la pistola infilata nei pantaloni, a ricordare le strade da cui tutto partì, appena 34 anni or sono.K-Dot potrà anche non avere salvato nessuno, ma la sua musica, quella sì.