Quante volte l’abbiamo detto ma, in effetti, non si finisce mai di stupirsi per la qualità della proposta musicale jazz nel nostro cantone. Può capitarvi in mano l’ultimo numero della rivista internazionale più quotata del settore, con l’intervista a uno dei mostri sacri sulle scene americane, e poche settimane dopo vi accadrà di ascoltarlo in Ticino, a due passi da casa. Una di queste esperienze si è verificata negli scorsi giorni, con il concerto del chitarrista americano Julian Lage, uno dei maggiori solisti attualmente in attività. Nato nell’87, si porta dietro una reputazione di enfant prodige che spesso gli è stata nociva, in particolare nel giudizio di molti colleghi chitarristi. Lage deve in qualche modo scontare l’esposizione che gli è stata data nel 1996 dal documentario Jules at 8, in cui il regista Mark Becker aveva raccontato l’inizio di carriera del dotatissimo ragazzino.
Dopo anni di studi (culminati con il diploma alla prestigiosa Berklee di Boston) e di una progressiva, indiscutibile crescita artistica, Lage è oggi uno dei più interessanti e originali solisti sulla scena, sia come musicista sia come compositore. A coronamento di tanto impegno è arrivato di recente il suo ingresso alla Blue Note, forse la maggiore casa discografica del settore.
L’abbiamo brevemente incontrato prima del concerto, dove ci ha confermato l’enorme soddisfazione e il senso di responsabilità che sente per essere entrato a far parte di quella scuderia. «Faccio fatica a rendermi conto di far parte di una casa discografica per cui hanno registrato Elvin Jones, Billy Higgins, Art Taylor, musicisti che mi hanno influenzato enormemente. Il disco che abbiamo registrato, Squint, è essenzialmente un disco swing che, come sappiamo, è uno stile fortemente legato alla tradizione afro-americana. Siamo fortunati a poterla sentire una parte di noi, legata a noi. Far parte della Blue Note mi fa sentire parte della tradizione».
Il concerto allo Studio Foce di Lugano ha proposto in effetti gran parte della tracklist di Squint, iniziando con Etude, un brano di chitarra classica moderna. Da subito ci si rende conto che la musica di Lage non è solo jazz, non è solo classica, ma è un melting pot, con alcuni spunti anche piuttosto rock, a dimostrazione di un eclettismo raffinato che è la vera marca distintiva di Lage. E il riferimento allo swing è poco più che simbolico. D’altro canto è difficile tirare un confronto tra il concerto e l’album, perché la personalità musicale dei due eccezionali partner di Lage (presentandoli al pubblico li chiama «Master Kenny Wollesen» e «Master Greg Cohen») prende giustamente il sopravvento su un repertorio che del resto è costruito su misura per il bassista Jorge Roeder e il batterista Dave King. Nell’intervista Lage ci ha confermato che il repertorio è nato proprio da un’interazione con questi ultimi.
«I miei album precedenti a Squint erano stati molti influenzati dalla personalità musicale di Jesse Harris, un produttore e arrangiatore newyorkese, che mi spingeva verso un suono pulito, e composizioni più melodiche, armoniose. Con Jorge e Dave invece ho lavorato cercando di esprimere vari aspetti della mia personalità musicale. Abbiamo preso dei pezzi, abbiamo tolto, abbiamo aggiunto, li abbiamo fatti diventare qualcosa di molto personale, di nostro».
In questo concerto luganese i brani del disco sono stati il «pacchetto di base», ma senza i due sparring partner usuali. In particolare il bassista Greg Cohen (un colosso musicale, ha suonato con John Zorn e con Tom Waits, tra gli altri) ha avuto poco tempo per familiarizzarsi col repertorio, visto che sui nove concerti di questa tournée europea, a lui sono toccate solo tre serate. «Ho dovuto semplificare molte cose, per fare in modo che lui potesse adattarle al suo stile. Ma è un grande onore poter suonare con lui e con Kenny, con il quale avevo registrato un album in passato, Modern Lore».
Su Squint i membri originali del trio hanno un approccio più dinamico e brioso, mentre in qualche modo Wollesen e Cohen danno dato dal vivo un contributo più classico, in un certo senso più semplice. I pezzi comunque sono stati affrontati con maggiore calma e controllo dallo stesso Lage, che nell’album appare invece più aperto alla sperimentazione e all’estroversione. La scaletta, iniziata con la prima traccia del disco, comprenderà i vari pezzi forti, tra cui Saint Rose (dedicato alla cittadina natale di Lage) per concludersi con Call of the Canyon, l’unica cover, tratta dal repertorio dell’orchestra di Tommy Dorsey.
La reazione del pubblico davanti a tanta dimostrazione di bravura, unita del resto alla semplicità e simpatia di Lage che sul palco sembra il perfetto bravo ragazzo vicino di casa, è stata di grande entusiasmo. Sarà che fa bene poter finalmente ascoltare musica dal vivo e tornare a toccare con mano il flusso musicale della contemporaneità, ma l’accoglienza riservata al trio di Lage è stata generosissima. «È molto bello poter tornare a suonare», ci aveva detto Lage, da parte sua: «Anche negli USA la gente ha voglia di musica e, nonostante tutti i rischi, ci sono concerti ogni momento, dappertutto. Noi cerchiamo di stare il più attenti possibile, ma siamo profondamente grati per questa attenzione». Il jazz continua, nonostante il virus, grazie anche a Rete Due Rsi e alla Divisione eventi di Lugano.