Inquieto Ernst Jünger lo fu fin da ragazzo. Era nato ad Heidelberg, in una famiglia borghese e protestante, ma trascorse l’infanzia ad Hannover in Bassa Sassonia, per poi trasferirsi con i genitori e i fratelli in provincia. Spostamenti che molto influirono sul suo rendimento scolastico: in effetti fu uno studente mediocre, cambiò spesso scuola e per un certo periodo finì anche in collegio. Lo scolaretto di un tempo, che leggeva Karl May – una sorta di Salgari tedesco – e s’entusiasmava per Robinson Crusoe, era ormai sedicenne quando si iscrisse con il fratello Friedrich al movimento giovanile di ispirazione romantica ed ecologista Wandervogel. Due anni dopo, nel 1913, fuggito in Francia si arruolò a Verdun nella Legione straniera, poi andò volontario nella prima guerra mondiale e ne uscì con un bel po’ di cicatrici e la più alta decorazione militare prussiana, l’ordine Pour le Mérite. Per non parlare degli avvenimenti successivi: la sua opposizione alla Repubblica di Weimar da esponente di primo piano della rivoluzione conservatrice, le mai celate simpatie per il nazionalsocialismo e il suo ruolo di ufficiale della Wehrmacht durante l’occupazione di Parigi.
I lontani anni di formazione sembravano ormai dissolti nell’arco di una vita ricca di turbolenze e contraddizioni che avevano fatto di lui il più significativo critico della modernità e un intellettuale europeo pronto a dialogare con colleghi stranieri di ben altro orientamento, come ad esempio, l’italiano Alberto Moravia. Ma il fanciullo Jünger sopravvisse alle molte battaglie dell’uomo: così alla soglia dei novant’anni lo scrittore lo riesumò in un felicissimo e intenso romanzo breve, Tre strade per la scuola, che Guanda ripubblica ora, a distanza di quasi di un decennio, nell’ottima versione di Alessandra Iadicicco.
Si sa che la memoria degli anziani ricompone con più facilità i tasselli del passato che quelli del presente, ma la lucidità e la leggerezza narrative che accompagnano il difficile cammino scolastico del giovane Wolfram – controfigura dello stesso Jünger bambino e adolescente – sono comunque incomparabili. La freschezza e la vivacità della scrittura sembra lenire il dolore, talvolta l’angoscia che ancora suscitano nell’anziano scrittore quei giorni lontani. Ma c’è dell’altro. Il libro – come rivela un’abbreviazione contenuta nel titolo originale – vuol essere una «vendetta tardiva». Contro le aberrazioni dell’opprimente pedagogia prussiana incapace di comprendere e valorizzare anime giovanili ansiose di libertà e poco inclini al livellamento e alla normalizzazione. Il giovane Wolfram non è un disadattato ma un bambino distratto dalle mille seduzioni del mondo che lo circonda. Confuso e affannato arriva tardi a scuola, perché si è trattenuto nel parco a osservare gli uccelli che volteggiano sul lago e, intorno alle rive, i gigli palustri e le spighe dei canneti. Al tempo delle elementari quella prima strada era la più bella, percorsa spesso in compagnia del nonno maestro che sapeva un sacco di cose e gli parlava delle varie famiglie di anatre o delle varietà di fiori e alberi.
Quel ragazzo dotato di intelligenza e di solida memoria recepisce solo ciò che gli è gradito: un pessimo allievo che però conosce bene piante e animali e insetti (Jünger sarà, tra l’altro, da adulto un ottimo entomologo), colleziona pietre in base a colore, forma e grana, costruisce sul terrazzo di casa il suo «panorama», cioè il parco cittadino in miniatura, e si tuffa nel proprio mondo come fosse il «relitto di una nave naufragata e gettata a riva per un Robinson»: lui stesso esiliato sulla sua isola mentale. Perché a quel ragazzo incline alle fantasticherie, che si circonda di eroi come Old Shatterhand e l’apache Winnetou conosciuti fra le pagine di Karl May, che ama più Ettore di Achille, sogna con l’Ariosto e sa a memoria le poesie di Schiller, il mondo circostante e la soffocante atmosfera scolastica – a ogni livello – creano seri problemi. Soffre di balbuzie, cade non di rado in una sorta di trance in cui la realtà circostante scompare e a lui sembra di fluttuare al di sopra di sé come se si osservasse dall’alto. Gli insegnanti lo giudicano un inetto incutendogli disagio e paure tanto da causargli fenomeni di incontinenza. Anche più tardi lungo le altre due strade che lo porteranno in scuole diverse, la prospettiva non cambia. E sono gli stessi insegnanti, pur validi nelle loro discipline, a offrire un’immagine di squilibrio e di disagio collettivo.
Ciascuno di loro – si chiamino Hilbert o Corax, lo studioso che amava recarsi a Roma sulle tracce di Gregorovius – ha il proprio lato in ombra, e la vita non sorride a nessuno. La vendetta di Jünger, a decenni di distanza da quell’epoca, non è rivolta a loro, ma a un intero sistema di cui sono i rappresentanti.
Lo scrittore traccia un percorso nel quale a rigide e dogmatiche regole si contrappone l’anelito verso una libera e individuale esperienza. Ma il curriculum drammatico del suo alter ego costruisce attorno a sé l’atmosfera di un’intera epoca, tra ombre lontane e sensazioni mai sopite. Attorno al vecchio Jünger si affollano figure richiamate in vita dal suo giovane protagonista: il dottor Edelstein, che molto contribuisce alla sua guarigione e suo nipote Siegfried, l’ebreo che da buon amico gli sarà accanto in momenti difficili. Anche grazie a loro Wolfram si emancipa dalla sua condizione di paria – una parola appresa dalla lettura di un libro del nonno – e decide di agire come Old Shatterhand, mani-di-ferro.
Non la scuola, ma Karl May è la sua fonte di ispirazione e il suo modello di emancipazione. Come quell’eroe del far west americano – sia pure di origine tedesca – egli sente arrivato il momento del riscatto. Con slancio e determinazione colpisce le sue vittime, per lo più condiscepoli, e non esita nemmeno di fronte al nuovo insegnante Corax, che gli crea un terribile senso di oppressione. Proprio in occasione della distribuzione delle pagelle egli chiede la parola e – sia alla maniera di Cicerone che di Socrate, tanto era ormai il sapere retorico accumulato nei suoi lunghi silenzi – si difende dai compagni e finalmente, dopo tante umiliazioni, sferra un colpo decisivo. È Socrate stesso, con cui idealmente conversa, che glielo suggerisce dando «perfino segni di prendere in simpatia il mio insegnante – confessa pubblicamente in classe il ragazzo –. Solo da un punto di vista pedagogico lo giudica una nullità». Poi, raccolti i suoi libri, scompare. La vendetta è compiuta, in nome di un’emancipazione che lo porterà lontano, purtroppo anche da quella libertà che da piccolo agognava fantasticando per le strade della paura.