Nella foto in bianco e nero, i festeggiamenti per il 60. compleanno di Hugo Loetscher al ristorante zurighese Kronenhalle. Da sinistra a destra Daniel Keel, Charlotte Kerr, Friedrich Dürrenmatt, Anna Keel, un giovanissimo Philipp Keel e Hugo Loetscher. (Keystone)


«Insieme costruiamo un rapporto che cresce nel tempo»

La casa editrice Diogenes festeggia i suoi primi settant’anni e agli Eventi Letterari riceverà il Premio Enrico Filippini
/ 04.04.2022
di Natascha Fioretti

«Era una domenica, eravamo a casa e poco prima di andare a tavola ricevo una telefonata. Friedrich Dürrenmatt nel suo dialetto bernese disse: “Mi vuoi con te?”». L’editore Daniel Keel, fondatore nel 1952 della casa editrice Diogenes, non aspettava altro. Quel gennaio del 1979 non segnò solo l’inizio di un importante sodalizio, ma annoverò Diogenes nell’olimpo della Weltliteratur e dopo la grande narrativa irlandese di Frank O’ Connor e quella americana di Patricia Highsmith finalmente accolse un grande autore svizzero. Più avanti arrivarono Ugo Loetscher e Urs Widmer, oggi Diogenes pubblica Martin Suter e Charles Lewinsky. Oggi a guidare una della più grandi case editrici di narrativa tedesca dalla vocazione internazionale è Philipp Keel, editore e artista che abbiamo intervistato in vista della premiazione agli Eventi Letterari sabato 9 aprile alle 11.00 al Monte Verità.

Ho visto che ha un profilo su Instagram. Cosa posta?

Per quanto concerne il digitale temo di essere una persona non tanto moderna, di fatto in passato non me ne sono mai voluto interessare. Mi piace l’idea del gioco ma preferisco farlo senza che tutti gli altri mi guardino. Il mio account Instagram è nato un giorno per puro divertimento perché una mia amica appassionata dei social mi disse che ci dovevo provare. Ora che ho il mio account personale, pur potendomi rallegrare del numero di follower, mi sento ridicolo. Sa, da artisti si è sempre severi e critici con sé stessi, ma è anche vero che oggi sono in molti a esporsi sui social media, così tanti che vien da chiedersi quanta arte il mondo possa sopportare. Faccio arte da tanti anni e credo che dovrei sforzarmi a trovare più piacere nel mostrare quotidianamente, come si fa con un diario, i miei lavori. Ammiro quegli artisti che hanno la disciplina per farlo.

Quanto conta la comunicazione sui social per la sua casa editrice?

È sempre più importante e inizia a piacermi. Grazie alla nostra attività su Instagram abbiamo raddoppiato i follower rispetto a due anni fa. Da questo si evince che sono molto più interessato alla presenza sui social come editore che non come artista. La nostra è una presenza legata alle molte persone che ci seguono, in particolare lettori e librerie ma anche altri fan di Diogenes. Certo, il fatto che a postare gli interventi sia un gruppo di persone variegato, fa sì che la nostra presenza su Instagram sia piuttosto vivace e poco unitaria. Mi chiedo sempre se dobbiamo curare maggiormente l’estetica o fare più attenzione alla vivacità dei nostri contenuti. Se puntiamo tutto sull’estetica il risultato può essere molto noioso ma fare la cosa giusta è come stare in equilibrio su una corda, si può solo puntare a fare meglio. Credo che abbiamo ancora molto da imparare su quale sia il modo migliore di presentare arte e letteratura. La sfida sta nel saper ridurre tutto all’essenziale e, personalmente, trovo che l’essenzialità sia la forma più interessante, anche nella vita.

Quando si parla di editoria si tende a mettere in luce le difficoltà che il settore attraversa. Voglio invece chiederle degli aspetti positivi, come ci si sente oggi a essere editore?

La cosa più bella è che non si ha mai a che fare con persone noiose. Non c’è ripetitività o conformità in questo mestiere e ritengo un grande privilegio poter scegliere come fare le cose e con chi farle. Dalle collaborazioni nascono sempre delle belle storie e c’è sempre di che essere allegri, scoppiare in una risata. Da queste relazioni può anche nascere un’amicizia, ma prima di ogni cosa viene il libro. E poi la nostra indipendenza, per la quale, questo lo posso dire, mi sono battuto, senza tensioni ma con una certa giocosità. Per farlo ho potuto contare su un team folle con cui condivido una grande passione, una passione che non si può spiegare. Nello showbusiness, e dunque nell’editoria, non sai mai quale sia la ricetta per riuscire. Si possono fare tutte le supposizioni e le previsioni del caso, in verità non vi è nulla di certo. Anche questo rende il mestiere interessante.

Tempo fa in un’intervista disse: «Non credo che avrei preso in mano la casa editrice se non avessi avuto la possibilità di continuare a fare arte». Riesce a fare tutto?

Ho avuto la fortuna di crescere in una delle epoche più belle quando ogni cosa, dall’arte, alla musica, alla moda, alle invenzioni stava fiorendo. Un tempo in cui le persone volevano essere libere e di fatto lo erano. Erano tempi in cui si poteva sperimentare senza essere giudicati, anzi sperimentare veniva visto di buon grado. Molte cose nate da questo spirito del tempo oggi caratterizzano ancora il mondo dell’intrattenimento, dell’arte, della moda, del design e della tecnica. Sono estremamente grato – con tutte le complessità della mia famiglia, come quelle di ogni altra – di essere diventato ciò che sono. Voglio dire che nella mia esistenza non è stato tutto bello e divertente, ho vissuto anche momenti difficili. Alla fine però la mia infanzia mi ha plasmato profondamente come artista e soprattutto come uomo e questo regalandomi una dose di ironia, di entusiasmo e un certo senso della bellezza. Non importa di quale pasta siamo fatti, tutto sta nell’iniziare e in questo ognuno di noi si ritrova davanti a un foglio bianco. Il famoso foglio bianco su cui scriviamo un testo, facciamo uno schizzo, disegniamo un’immagine o portiamo in scena qualcosa al cinema o a teatro. È proprio da questa dimensione che scaturiscono poi cose straordinarie. Dalle dinamiche in cui sono cresciuto ho sempre cercato di cogliere i lati positivi spinto dalla mia vena artistica e da un affetto, un’inclinazione per quelle persone che frequentavano casa nostra. In verità mi disturbavano anche un po’ perché rubavano l’attenzione dal mio nido famigliare. Resta il fatto che gli scambi avuti con personalità così brillanti sono stati una immensa fonte d’ispirazione.

Nella ricerca dell’equilibrio tra il suo essere al contempo artista e editore, cosa ha imparato?

Aver ritrovato, in quanto artista, la strada verso le altre arti, dopo un lungo viaggio di scoperta, mi ha dato nuova linfa. Certo è anche un difficile gioco di equilibrio quello di essere artista, editore, produttore di film, padre di due bambini… È un compito ardito quello di vivere vite diverse, indossare tanti cappelli, ma ne sono davvero felice. Alla fine, se osservo tutto in modo pragmatico, tra la mia attività di artista e il tempo in cui mi metto a disposizione degli altri, c’è un equilibrio. So quali sono i desideri dell’artista e dello scrittore. Quello che loro mi chiedono è la presenza, che io ci sia per loro, per la loro opera e che nel nostro fare insieme ci sia una continuità. Insieme costruiamo un rapporto che abbia una sua profondità ma anche una certa leggerezza che cresce nel tempo man mano che ci si conosce meglio.

Nel 2019 Benedict Wells presentò la sua mostra a Zurigo dal titolo Last Summer. Come mai scelse lui?

Allo scrittore Benedict Wells, che ammiro profondamente, perché così giovane ha raggiunto traguardi notevoli, mi lega un rapporto di lunga data. Sono affascinato dai suoi libri e dalle sue storie, ammiro la distanza con la quale riesce a raccontare. Ci unisce una storia particolare. Da editore quando hai un autore talentuoso come Benedict Wells ti aspetti che sforni un libro nuovo ogni anno, magari ogni due. Quando arrivò nella nostra casa editrice, Benedict mi disse subito che ci sarebbero voluti molti anni prima che mi avrebbe consegnato il nuovo libro. Deglutii forte e gli dissi di non preoccuparsi, di prendersi il tempo necessario. Per sette anni ha lavorato al romanzo, un tempo che mette paura a qualsiasi editore, perché nel frattempo ti chiedi se ti piacerà. Me lo ha inviato pochi giorni prima del mio viaggio a Los Angeles e l’ho conservato per la traversata in aereo. L’ho letto tutto d’un fiato. Non voglio dire di averlo finito nel momento in cui abbiamo toccato terra ma ci è mancato poco. Sapevo che dopo una prima notte insonne di jet lag lo avrei chiamato per dirgli che era un capolavoro e sarebbe diventato un bestseller. Lo avrei anche ringraziato per avermi tolto la paura. Gli dissi proprio questo quando lo chiamai alle cinque del mattino e nel frattempo Vom Ende der Einsamkeit ha venduto 600mila copie. Così a un certo punto della nostra collaborazione ho desiderato che intervenisse in uno dei miei progetti e l’occasione si è presentata con la mostra Last Summer in cui a giocare un ruolo importante erano la malinconia e il destino. Ho pensato che nessuno meglio di lui poteva condensare il concetto, rendere l’idea di quella nostalgia che si prova guardando indietro all’ultima estate trascorsa. La cosa andò benissimo, il suo intervento fu più breve di una pagina e mi piacque per la sua sincerità.

In questi giorni avete pubblicato Die Jagd (La caccia), il thriller di Sacha Filipenko. Cosa apprezza di questo autore bielorusso?

Credo che non si possa ammirare a sufficienza quanto questo giovane autore abbia sostenuto e attraversato. Le condizioni politiche in Bielorussia, lo sappiamo, sono scandalose ma non è questo il problema più grave. Sacha Filipenko è un perseguitato, questo è davvero tragico ed è una condizione ora accentuata dalla guerra in Ucraina. Mi ha molto colpito vedere come un autore, che stimo non soltanto da un punto di vista letterario ma anche umano, sia in grado di raccontare le sue esperienze autobiografiche senza mai puntare il dito, senza muovere accuse. Gli è perfettamente riuscito nei suoi libri e sono profondamente commosso dal fatto che perseveri a scrivere nella sua condizione di senza dimora e che la sua famiglia abbia deciso di seguirlo. Anche noi della casa editrice gli abbiamo dato riparo, gli abbiamo fatto sentire che qui ha un appoggio e può trovare un po’ di calma. Ad aiutarlo sono state in particolare la responsabile e le collaboratrici dell’ufficio stampa, ma tutti noi abbiamo a cuore il benessere dell’autore e della sua famiglia. È questo lo spirito della nostra casa editrice, lo spirito che ci rende così orgogliosi. Ci sono così tanti autori e autrici, anche del passato come Dürrenmatt e Andersch, che lo alimentano e lo hanno alimentato. Si pensi soltanto al nuovo libro di Bernhard Schlink, Die Enkelin. Sono davvero fiero di poter lavorare con persone capaci di raccontare le più profonde ferite della storia, della politica e della loro vita personale e di farlo senza filtri, in modo diretto attraverso il linguaggio o una storia che non appesantisca il lettore e non sia pretenziosa. Questa è l’arte nel suo senso più elevato che colgo nelle opere di autori come per esempio Bernhard Schlink.

Concorso

«Azione» mette in palio dei biglietti per l’incontro con l’editore Philipp Keel. Per partecipare inviate una mail a giochi@azione.ch, oggetto «Diogenes» con i vostri dati (nome, cognome, indirizzo, numero di telefono) entro le 24.00 di mercoledì 6 aprile.