Tanti alunni si irrigidiscono quando si nomina la matematica. Eppure se si riesce a penetrare la logica di questa materia scolastica si scopre che la danza dei numeri è molto digeribile. In matematica le eccezioni sono rare, mentre sono ben presenti quando si studia una lingua. Della matematica ci interessa una regola: la proprietà detta commutativa della moltiplicazione, che fa sì che 2x3 oppure 3x2 facciano ugualmente 6. Ma se dalla lezione di «mate» ci spostiamo a quella di «ita», le cose si complicano.
Quante volte infatti, per esprimere l’idea di un evento che si produce spesso, si sente dire «questo accade ogni tre per due». Sia chiaro: il «3 per 2» è comodo quando si va a fare la spesa perché permette di portarsi a casa gratis il terzo pezzo di un determinato articolo, ma non ha alcun senso come espressione equivalente a «quasi sempre». La forma corretta – l’unica – è «ogni due per tre», ossia «due volte su tre». Poco convinti? Invertite i fattori come in una moltiplicazione e capirete che dire «tre volte su due» non ha davvero alcun senso.
Che birbanti, questi modi di dire! O forse siamo noi a cadere facilmente nella trappola. Per citare un altro esempio restiamo indirettamente nel mondo dei numeri: prendiamo l’espressione «fare il terzo grado», ossia sottoporre qualcuno a una serie di domande incalzante, come accade durante un interrogatorio a un sospetto criminale. Esattamente non è chiaro da cosa derivi (per alcuni sarebbe da ricondurre alle raffiche inquisitorie, spesso condite da torture, cui venivano sottoposti attorno al 1300 i templari, il cui terzo grado gerarchico corrispondeva all’alta carica di «maestro»). Non di rado però spunta una certa confusione: «mi ha fatto il quarto grado». Il sospetto è che ci metta lo zampino una popolare trasmissione televisiva italiana che si picca di fare chiarezza sui crimini insoluti. Vocazione forse lodevole, tuttavia il rischio corso da questo genere di format che sbatte davanti alle telecamere i drammi umani è di esagerare; e allora, si sa, «il troppo storpia»… O «il troppo stroppia»?
Ahimè, quest’ultimo è il modo di dire su cui spesso si è incartata la mia lingua, nel tentativo di mascherare balbettando l’insicurezza su quale sia la forma corretta di questa espressione. «[T]utti i vocabolari dell’italiano contemporaneo – spiega l’Accademia della Crusca – mettono a lemma la voce storpiare e segnalano stroppiare come variante popolare», dove stroppia suona comodamente simile a troppo. Visto che la forma popolare è la più diffusa, risulta la più corretta «perché rispetta la natura dei proverbi che esprimono sempre la ‘voce del popolo’», precisano Angela Frati e Stefania Iannizzotto per l’Accademia. Meno male: la cultura popolare assolve dalla confusione linguistica.
A proposito di assoluzione e di pratiche religiose: sempre secondo il popolo ci sono dei santi un po’ sordi alle preghiere, tanto che invocarli non vale il costo di accender loro un cero. Se «quel santo non vale la candela», sopravvive tuttavia nella lingua anche il suo gemello laico. In «il gioco non vale la candela», il lume non tenta l’ascesa ai cieli, bensì in passato serviva molto più prosaicamente ai giocatori di carte per scommettere ben oltre il calar del sole. Le candele erano preziose, tanto che a volte il loro costo superava la posta in gioco: da qui il consiglio a lasciar perdere se il risultato rischia di essere scarso. Chissà se la versione «profana» è nata per una storpiatura dell’originale «religioso»? Quanto al santo pigro, un certo miracolo lo ha fatto, visto che il suo proverbio sopravvive nel nostro oggi, nell’era dell’elettricità.
Intrigante, la doppia vita di certi proverbi e modi di dire. Fino alla bara, sempre s’impara.