Un buon organizzatore di rassegne si rimbocca le maniche al termine della manifestazione per costruire quella successiva, ben sapendo che la difficoltà sta nel saper cogliere, o addirittura anticipare, gli umori di ciò che potrà rendere originale l’occasione subodorando le novità.
La riflessione accompagna la 28esima edizione del FIT, il Festival Internazionale del Teatro in scena a Lugano, a fronte di spettacoli che trasmettono conferme e informazioni sui cambiamenti in atto non solo nel linguaggio teatrale contemporaneo ma anche in una prospettiva della fruizione del pubblico. Sono segnali chiari, presenti in diversi spettacoli da cui non si può prescindere. Stiamo infatti assistendo a un rito di passaggio, a un cambiamento generazionale dove il teatro, quello che si manifesta nelle sale di fronte a un pubblico, sta modificando i suoi parametri lasciando sempre più il posto alla tecnologia, alle immagini, a storie che rimbalzano sul pubblico stimolando i neuroni a specchio. Da fenomeno sporadico, oggi si sta trasformando in un paradigma attraverso il quale riconoscere le nuove tendenze. Il FIT l’aveva già evidenziato nelle passate edizioni.
In quest’ultima si è insistito di più con appuntamenti per i quali non c’è differenza fra lo star seduti davanti a uno schermo o di fronte a un palco. Bisogna cominciare a fare i conti con nuove regole, nuovi spazi, fisici e mentali, nuove logiche comunicative, nuovi rapporti fra empatia teatrale ed emozioni visive messi in dialogo con la settima arte. Un cinema dunque che si fa occhio neutrale e strumento di un racconto dove la drammaturgia teatrale ha un ruolo essenziale.
Prendiamo ad esempio la sequenza creata con tre appuntamenti in cui questo teorema si rende evidente: Granma del collettivo Rimini Protokoll, The Congo Tribunal di Milo Rau e Teatro de Guerra di Lola Arias. Una trilogia cinematografica dove il tema fondamentale è la rilettura della Storia, ora attraverso il racconto fra gli ottoni dei nipotini della rivoluzione castrista, ora nell’inscenare un dibattimento processuale sui misfatti di una guerra civile amministrata da interessi di multinazionali dello sfruttamento, infine nel confronto fra veterani di parti avverse nella guerra per la conquista delle Falkland intesa come una sensibile metafora generazionale.
Tre aspetti di un processo articolato legato alla memoria in cui riaffiora la determinante importanza di microstorie che permettono allo spettatore di proiettarsi in dimensioni private avvolte da senso comune, che mescolano colpe e accadimenti, inevitabili destini e arroganza del potere, la logica della violenza collettiva e l’individuo abbandonato alle sue sofferenze. Un aspetto apparentemente privato che diventa fortemente soggetto di confronto pubblico, fra pagine di storie vissute e ancora in cerca di giustizia e verità.
Teorie in movimento fra parola e gesti
Tutto è teatro, ci ricorda il FIT, a dispetto delle convenzioni ma in una prospettiva in cui si situano momenti ancora fortemente legati al palcoscenico, in sintonia con la contemporaneità, quella che guarda avanti e si fa intendere con modalità espressive, per certi versi, ancora tradizionali. Come per il monologo R.L. di Roberta Bosetti proposto in prima internazionale dalla compagnia Cuocolo/Bosetti IRAA Theater e tratto da un racconto del Nobel canadese Alice Munro. Un’ora di incalzante fascino narrativo dove la parola è liberata in una trama di suoni e rilievi diffusi in audioguide e accompagnati dalla proiezione di cartoline, radicali liberi di una quotidianità casalinga disarmante. La Bosetti è bravissima, la sua voce calda, tenue e modulata diventa lo storyboard di una fragilità intima e indifesa. Restiamo in zona linguaggi per esplorare brevemente anche l’originale e densa performance di Yasmine Hugonnet, in scena sul palco del LAC con Audrey Gaisan Doncel et Ruth Childscon per il suo CHRO NO LO GI CAL.
La sillabazione del titolo già la dice lunga su un percorso tematico in cui la gestualità è parte di una dimensione minimalista, quasi criptica. Il progetto della danzatrice e coreografa svizzera è un’ulteriore tappa della sua ricerca coreografica. In questo spettacolo lo fa con scomposizioni scultoree del movimento, nella lentezza di segni ricercati, nati dai suoni di una lingua gutturale, a bocca socchiusa e senza labialità, accanto a una sinfonia corale di sillabe che diventano preludio coreografico allusivo elisabettiano, un viaggio interiore e spirituale nel tempo: posture ironiche, perfette, fino alla nuda espressività di corpi immobili allineati sul palcoscenico.