In the name of glorious John

A cinquant’anni dalla morte del grande direttore d’orchestra inglese Sir John Barbirolli (nato Giovanni Battista)
/ 14.12.2020
di Giovanni Gavazzeni

Sir John Barbirolli (1899-1970) sentiva dalla nascita il suono delle Bow Bells, le campane della chiesa barocca di St. Mary-le-Bow nella City di Londra. Dunque si riteneva a pieno titolo un autentico londinese cockney, essendo nato in quel comprensorio acustico. Sir John però all’atto di nascita si chiamava Giambattista, figlio del veneziano Lorenzo, ex-violinista del Teatro alla Scala emigrato a Londra. Con l’inizio dell’attività come direttore d’orchestra fra le due guerre mondiali, Barbirolli anglicizzò il nome di battesimo (John), che gli appassionati britannici corredarono dall’aggettivo «glorious»: per gli amici rimase sempre e solo JB; per tutti gli altri Glorious John divenne la quintessenza dell’inglese educato alla Royal Academy of Music di Londra sotto il regno di Edoardo VII, il figlio della regina Vittoria che regnò sul più grande impero coloniale del mondo.

Violoncellista di talento, s’improvvisò in due giorni direttore d’orchestra nel 1928 (il padre lo obbligò ad accettare l’offerta urlandogli tutti gli improperi italiani e veneziani che conosceva) in sostituzione di «Tommy» (il carismatico Sir Thomas Beecham) negli ormai celebri concerti dei Proms. Il successo fu tale che alla fine della serata un signore gli intimò di non firmare nulla e presentarsi l’indomani all’indirizzo accluso nel biglietto da visita: era il geniale fondatore della casa discografica EMI, Fred Gaisberg, che lo assunse seduta stante per accompagnare Beniamino Gigli, i big del canto italiano e tedesco e il gotha dei solisti (Fritz Kreisler, Arthur Rubinstein, Pablo Casals, Jasha Heifetz) di passaggio dalla sala d’incisione di Abbey Road.

La sua notorietà crebbe a tal punto che nel ’36 fu nominato successore alla Filarmonica di New York nientemeno che di Arturo Toscanini. Compito impari, reso impossibile dalle impietose mazzate infertegli dai due più potenti e velenosi critici americani del tempo, Olin Downes sul «New York Times» e Virgil Thompson sul «New York Herald Tribune». Churchill in persona autorizzò il suo rimpatrio nel ’42 («Se è così pazzo da venire, fatelo tornare») – il convoglio di Barbirolli perse 42 imbarcazioni su 75 sotto il tiro degli U-boote tedeschi prima di entrare a Liverpool, una situazione che il pubblico di oggi può capire meglio vedendo lo splendido film di guerra, Greyhound- Il nemico invisibile, protagonista Tom Hanks. Barbirolli mise l’ancora in provincia, a Manchester, dove rifondò ex-novo la gloriosa Hallé Orchestra, ormai ridotta a una formazione raccogliticcia e sbandata. A Manchester scelse uno a uno i musicisti e li addestrò con decine di prove per scavare il fraseggio senza vincoli burocratici e trovare quella edwardian phrase, quel suono polposo, quel fraseggio nobile, quell’indugio nei portamenti, che divennero la sua sigla personale.

Nel secondo dopoguerra fu molto amato a Londra, a Vienna, a Berlino, dove Karajan gli lasciò le sinfonie di Mahler, in America, dove trasformò la sinfonica di Houston: un’autorità per gli autori inglesi (il solido umanesimo britannico di Vaughan Williams, il crepuscolare impressionismo di Delius) e i maestri della modernità sinfonica (Mahler e Sibelius), non dimenticando l’intensità dei suoi Puccini e Verdi: splendida la Messa da Requiem con un quartetto vocale coi fiocchi: Montserrat Caballé, Fiorenza Cossotto, Jon Vickers, Ruggero Raimondi, edizione che figura nella raccolta completa delle sue registrazioni EMI ristampata per l’occasione del cinquantenario della morte da Warner Classics. Verdi, per il quale padre e nonno avevano suonato alla prima esecuzione assoluta di Otello alla Scala, opera che Barbirolli incise in tarda età nonostante un cast non proprio idiomatico e a cui era legato visceralmente.

Last but not least, Barbirolli fu interprete flessibile, generoso, aristocratico e vivace del maggior musicista inglese dell’era edoardiana, Edward Elgar. Nelle poderose sinfonie, nei poemi sinfonici alla Richard Strauss (In The South e Falstaff), nello struggente canto del Concerto per violoncello con Jacqueline Du Pré che distilla tutta la sua anima, nell’apocalittico oratorio The Dream of Gerontius, nei quadri marini delle Sea Pictures, nell’ouverture Cockaigne, cioè Londra, il paese della sua Cuccagna musicale, il suo estro direttoriale scintilla con una precisione di passi da fare invidia al suo protetto Daniel Baremboim, allora pianista di great expectations, oggi direttore di fama divenuto apostolo elgariano.