In scena, tre sorelle senza parole

«Tre sorelle», il capolavoro di Anton Čechov, approda allo Schiffbau di Zurigo in una versione fuori dagli schemi; invece dei dialoghi, la comunicazione tra i personaggi è affidata alla lingua dei segni
/ 11.03.2019
di Marinella Polli

Unitamente a Il gabbiano, Zio Vanja e Il giardino dei ciliegi, Le tre sorelle di Anton Čechov è certamente uno dei drammi chiave del Novecento, non da ultimo anche perché è una perfetta radiografia di un’epoca e di un Paese che stava scomparendo; fu infatti scritto proprio nel 1900 e messo in scena per la prima volta nel 1901, date immediatamente considerabili emblematiche di un nuovo inizio. Nel tipico linguaggio di quell’arguto fotografo di anime che è Čechov, ovvero un linguaggio fatto di ilarità e angoscia, di commedia e di tragedia a un tempo, si incrociano qui storie e personaggi sullo sfondo di una mondanità all’apparenza appagata, ma gretta e provinciale, dietro la cui facciata si celano piccoli rituali quotidiani, meschine ipocrisie, sogni infranti e speranze disattese, fallimenti, frustrazioni, dolori e insoddisfazioni di varia natura.

La storia è quella nota delle sorelle Olga, Irina e Mascia, le quali vivono con il fratello Andrej in una tenuta di provincia e nelle cui vicinanze è di stanza un gruppo di militari. Sfumata ormai ogni prospettiva di andare a Mosca, non resta altro che abbandonarsi all’ineluttabile: Olga invecchierà in solitudine, Mascia dovrà separarsi da Verscinin, il colonnello sposato di cui è perdutamente innamorata e resterà col marito che non ama, Irina, dopo aver accettato di sposare il barone Tuzenbach pur non amandolo, non riuscirà a ricominciare una nuova vita con lui, che verrà ucciso in un duello. Ad Andrej, oltre a una moglie arrogante e incolta come Natalja, resterà la casa.

Le tre sorelle nel linguaggio dei segni, regia di Timofey Kulyabin, il regista di Casa di bambola di Ibsen di cui abbiamo recentemente riferito per l’uso di Whatsapp in scena, è per due serate ospite allo Schiffbau della Schauspielhaus. Nella sua messinscena (definita nel 2015 dall’Associazione internazionale dei critici di teatro «produzione dell’anno») tredici dei quattordici personaggi conversano nel linguaggio dei segni – con sopratitoli in tedesco e in inglese – quasi a ribadire una storia di costante tensione verso il futuro, ma anche di desideri che non si realizzano, di difficoltà e di agonia. Il linguaggio dei segni è contrappuntato da suoni e rumori di sottofondo: corde di violino pizzicate, suonerie di cellulari (ai protagonisti arrivano degli sms e spesso vengono scattati anche dei selfie), rumore di piatti e posate, tacchi e passi strascicati. Suoni e rumori ovviamente ignorati dagli attori, ma non dagli spettatori, i quali vengono trascinati dalla mimica drammatica e dalla toccante espressività recitativa che mettono a fuoco gioie, malinconie, paure e disperazioni dei protagonisti in scena. Poco importa se il testo recitato, finora elemento saliente e caratterizzante dello spettacolo teatrale, perda la propria esclusività, facendo posto ad altri codici.

Oltre ai rapporti tra i diversi personaggi e a quel loro monologare, più che dialogare, l’allestimento di Kulyabin riesce a evidenziare anche il perpetuo girare a vuoto dei protagonisti. Altro punto saliente del ragionamento filosofico e della poetica di Čechov, è il tempo che scorre inesorabile; ciò è reso soprattutto dalla scenografia di Oleg Golovko, un interno zeppo di mobili e accessori, che sfrutta l’atmosfera prodotta dal puntuale light design di Denis Solntsev.

Caloroso l’applauso del pubblico rivolto a tutti i partecipanti, in particolare a Irina Krivonos, Darya Yemelyanova e Linda Akhmetzyanova nei ruoli delle tre sorelle Olga, Mascia e Irina.