Dove e quando
Milano, Teatro Manzoni, fino al 27 gennaio; Locarno, Teatro di Locarno, il 13 e 14 marzo.


In scena il dramma dell'Alzheimer

«Il padre» di Florian Zeller con uno straordinario Alessandro Haber
/ 21.01.2019
di Giovanni Fattorini

I mezzi d’informazione che ci ragguagliano sull’aumento a livello globale dell’aspettativa di vita ci dicono altresì che il fattore maggiormente correlato all’insorgere della più comune e a tutt’oggi incurabile forma di demenza – il morbo di Alzheimer – è la longevità. La durata della vita si allunga; di conseguenza, cresce il numero delle persone affette da diverse forme di demenza senile tra cui l’Alzheimer. Stando ai dati delle Nazioni Unite riguardanti la popolazione mondiale, gli individui affetti da demenza – che oggi ammontano a 47 milioni – nel 2050 raggiungeranno i 114 milioni. Non c’è quindi da stupirsi che nella narrativa e ancor più nel cinema degli ultimi vent’anni siano apparsi diversi personaggi che presentano i segni di una degenerazione progressiva delle cellule cerebrali.

Affetto da Alzheimer è anche il protagonista del pluripremiato Il padre (Le père, 2012), lungo atto unico del drammaturgo francese Florian Zeller, di cui lo scorso novembre il pubblico ticinese ha avuto modo di conoscere la commedia in due atti A testa in giù (titolo originale: L’envers du décor). Andrea – così si chiama il personaggio principale della pièce – è un anziano e poco remissivo ingegnere che nella scena iniziale vediamo e ascoltiamo discutere nervosamente con la figlia Anna, turbata da frasi e comportamenti di cui non sa definire la natura: sono manifestazioni di normale invecchiamento o sintomi di demenza incipiente? Una domanda a cui viene data abbastanza rapidamente una risposta.

Nelle scene successive, alla perdita di memoria a breve termine si aggiungono infatti manifestazioni sempre più inequivocabili di uno stato patologico che si aggrava: irritabilità, repentini sbalzi d’umore, sospettosità e aggressività nei confronti dei familiari e della badante, perdita della memoria a lungo termine e delle coordinate spazio-temporali, confusione di nomi e di persone: sintomi e segni di una malattia neurologica senza possibilità di cura o remissione: l’Alzheimer.

Per alleviarne il disagio e tenerne maggiormente sotto controllo il comportamento imprevedibile, Anna decide, contro la volontà del marito, di accogliere in casa propria il genitore, a cui è molto affezionata. Quando la situazione diventa insostenibile, Andrea viene ricoverato in una clinica psichiatrica (anche perché Anna intende trasferirsi a Londra con un nuovo compagno).

Attraverso una sequenza di scene brevi o brevissime (che il regista Piero Maccarinelli ha distanziato con intervalli di buio in cui risuonano le musiche inquietanti di Antonio Di Pofi) lo spettatore assiste al progredire di un deterioramento cognitivo e funzionale irreversibile di cui non viene mostrata la fase finale. Il dramma si conclude infatti con un’improvvisa crisi di pianto durante la quale Andrea invoca la madre e poi si lascia docilmente guidare da un’infermiera che lo invita a seguirla per una passeggiata nel parco. Lo vediamo per l’ultima volta, immobile e seminascosto dalla porta della sua camera di degente, mentre guarda fissamente il pubblico.

Per rendere lo spettatore più intimamente partecipe del dramma di Andrea, Zeller ha pensato di fargli in qualche misura condividere la sua percezione alterata della realtà attraverso lo sdoppiamento di alcuni personaggi. Solo alla fine lo spettatore si rende conto che certe scene sono visioni retrospettive, deformate dalla mente del protagonista. Il calo delle funzioni cognitive di Andrea si accompagna (è un’efficace metafora registica, perché il testo di Zeller è privo di didascalie) al progressivo svuotarsi della scena di Gianluca Amodio, fatta di pochi arredi e di quinte rotanti che fingono i tre luoghi in cui si svolge l’azione.

Il padre non è un’opera di particolare complessità e profondità. Che uomo fosse Andrea prima dell’insorgere della malattia, Zeller non ce lo dice. A mio parere, il testo si spinge poco oltre i limiti di un quadro clinico in evoluzione, che nella fase iniziale presenta anche dei tratti comici di sicuro effetto (la gag dell’orologio, i passi di tip tap). Quanto alla figlia affettuosa (interpretata con garbo da Lucrezia Lante della Rovere), mi sembra tratteggiata in modo piuttosto convenzionale (fatta salva la scena – che per qualche minuto sembra aprire una diversa prospettiva – del racconto di un sogno in cui Anna strangola il padre addormentato).

Di modesto spessore le figure della badante e dell’infermiera (Ilaria Genatiempo e Daniela Scarlatti), e ancor più quelle del marito di Anna (Paolo Giovannucci), del suo nuovo compagno e del medico (Riccardo Floris). Le ragioni per cui lo spettacolo tiene desta l’attenzione dall’inizio alla fine sono tre: gli sconcertanti sdoppiamenti di cui ho detto sopra; la regia precisa e ben ritmata di Maccarinelli; la straordinaria interpretazione di Alessandro Haber (Andrea), che disegna una figura di forte e singolare rilievo vocale e gestuale.