Il film scritto da Lisa Nur Sultan e Alessio Cremonini, diretto da quest’ultimo e distribuito da Netflix, ha aperto la categoria «Orizzonti» alla 75esima edizione della mostra internazionale cinematografica di Venezia e narra la reale vicenda degli ultimi agghiaccianti sette giorni della vita di Stefano Cucchi, tra il 15 e il 22 ottobre 2009. Un giovane trentenne condannato per possesso e spaccio di hashish e cocaina, aggredito e malmenato violentemente dai carabinieri fino a provocarne la morte. La svolta del processo è proprio di queste ultime settimane con l’ammissione del carabiniere Francesco Tedesco che accusa due suoi colleghi dell’aggressione nei confronti di Stefano.
Il film è un’opera dura, cruda, violenta e drastica. Dalle prime scene veniamo a conoscenza del personaggio di Stefano, un ragazzo che vuole redimersi dai precedenti reati, che cerca di diventare una brava persona e di essere un membro migliore all’interno della sua famiglia. Da subito appare chiaro che ha un passato problematico che si riflette in casa, con la conseguente diffidenza dei genitori e della sorella, che sembra però gli stiano offrendo un’altra possibilità.
Le cose cambiano quando la sera del 15 ottobre Stefano e un suo amico si incontrano in macchina, apparentemente per fumarsi una sigaretta in pace. È perfetto come Cremonini abbia deciso di realizzare la scena come se si trattasse di una chiacchierata normalissima, senza evidenziare il fatto che Stefano gli stesse in realtà vendendo della droga. Dal momento in cui arriva la polizia a bussare al finestrino, la vita del protagonista cambia per sempre. I dialoghi del film sono gestiti in maniera egregia: sono naturali, spontanei, veri, non eccedono mai e delineano perfettamente la natura dei personaggi. Le inquadrature, che passano da lunghe riprese statiche a piani sequenza formidabili, riescono a creare una tensione di primo livello nello spettatore, che per tutta la durata del film vive un’esperienza dalla grande impronta emotiva.
Non è la violenza esplicita che il film vuole mostrarci, bensì la ripercussione psicologica degli eventi sui protagonisti. Stefano si è trovato in gabbia, e anche quando poteva far valere la sua opinione non ha esercitato il suo potere di parola. In tribunale sosteneva che non spettasse a lui raccontare gli eventi, probabilmente perché minacciato dagli stessi carabinieri, o per paura dell’accusa pesante che avrebbe rivolto nei loro confronti; fatto sta che in sala nessuno ha voluto parlare dei tremendi ematomi che gli sfiguravano il volto e questo crea frustrazione e odio nei confronti della polizia, come lo crea nei confronti di Stefano che poteva osare di più per la sua difesa e in quelli del padre, che assiste muto al processo.
Il film è un continuo susseguirsi di emozioni forti che mettono in difficoltà lo spettatore portandolo a riflettere su cosa si sarebbe potuto fare per evitare la tragedia.
Al protagonista ci si affeziona sempre di più, piano piano emerge il suo lato più dolce e sensibile, esasperato dalla solitudine e dall’ingiustizia subìta.
L’opera di Cremonini è spietata ma necessaria, perché mette in luce la reazione di una famiglia a una tragedia che poteva essere evitata. Allo stesso tempo evidenzia l’importanza dei diritti fondamentali come quello alla vita e alla libertà, provocando nello spettatore un senso di ribrezzo nei confronti della giustizia e dello Stato. Un appello, un avvertimento, una realtà che ci viene mostrata in modo psicologicamente brutale permettendoci di riflettere sulla responsabilità delle nostre azioni, senza lanciare accuse esplicite agli organi dello Stato, ma piuttosto lasciandoci giudicare liberamente la tragica storia dopo un’ora e quaranta di profondo coinvolgimento.