Sono diversi i pregi di Atlas, ma il film del ticinese Niccolò Castelli – presentato in apertura alle Giornate di Soletta e trasmesso dalla RSI mercoledì sera – ha anche qualche piccola pecca.
Inquadriamo il perimetro del film con la trama. Appassionata di arrampicata, Allegra è vittima di un attacco terroristico che costa la vita ai suoi amici. Annientata dalle ferite subite dal suo corpo che l’hanno resa impotente e senza speranza, si ritira in un silenzio immobile, diffidente e finanche aggressivo, come fanno gli animali feriti. Allontanando persino i suoi cari, alcuni disperati, altri colmi di rabbia per l’accaduto. Così, per tornare alla vita, Allegra deve intraprendere una lunga lotta per ritrovare sé stessa e affrontare i suoi fantasmi. In questo contesto incontra Arad, un giovane rifugiato del Medio Oriente.
Veniamo alle annotazioni positive. Il primo aspetto che colpisce è l’ambientazione. Il regista e il direttore della fotografia (Pietro Zuercher) sono stati bravi a filmare un Ticino diverso: piovoso e buio. Ne esce un territorio che seppur catturato nei suoi luoghi caratteristici (montagne, laghi e città), non diventa la solita Sonnenstube da cartolina a cui siamo abituati. Un’atmosfera cupa (soprattutto quella cittadina) che ben si abbina all’oscurità che aleggia nell’animo della protagonista e che in qualche modo lo sottolinea. In generale Atlas è filmato piuttosto bene con la camera che indugia spesso e volentieri sulla protagonista, come un film di Loach o dei Dardenne, anche se bisogna dirlo: il realismo raggiunto nel film di Castelli non è mai al livello dei registi appena citati.
Riuscito pure lo sviluppo della storia. Il difficile percorso di rinascita di Allegra, che si alterna a flashback nei quali si ricostruisce, come un puzzle, quanto è successo, è interessante. Infatti, solo dopo la metà del film si ha tutto più chiaro, e soprattutto chi ha un minimo di memoria si ricorderà del tragico attentato di Marrakech che sconvolse il Cantone qualche anno fa. Un modo per mantenere alta la curiosità nello spettatore e per evitare il melodramma e la lacrima facile.
Buona anche la rappresentazione dei desideri giovanili. La vita dei ragazzi che abbina il desiderio di libertà (le scalate tra amici) alla voglia di socializzare (i concerti, i bar e la condivisione di un appartamento) è uno sfondo credibile per la vicenda.
Ed eccoci ad alcuni aspetti più discutibili. Anzitutto la recitazione. Se la bravura di Matilda De Angelis è fuori discussione, qualche perplessità emerge per il suo accento troppo lontano dalla nostra realtà. Sempre restando sull’aspetto recitativo, qualche riserva su alcune performance (penso al padre e al protagonista che interpreta Arad, il rifugiato musicista) le segnalo. Così come annoto qualche tematica non troppo sviluppata. Per esempio, il lato più leggero della ragazza (che intravediamo nel tentativo di seduzione di Arad) non aggiunge nulla al suo carattere né al percorso che sta effettuando. Così come risulta secondario il filone tematico legato alla paura dell’altro, del diverso. Se nell’intenzione del regista doveva essere questo il focus, nei fatti e nelle immagini ci si concentra di più sul travaglio personale e la rinascita, a prescindere dal diverso. L’impressione è che la questione della diversità sia solo un pretesto e non venga mai affrontata davvero.
Atlas è un bel salto in avanti rispetto a Tutti Giù (la prima fiction di Castelli). Il regista non è ancora del tutto a fuoco però, ci sono ancora aspetti da meglio inquadrare, una ricerca cinematografica da sviluppare e soprattutto una voce personale da affinare. Ecco, Castelli deve trovare la libertà di quel cane che vaga nella notte per le strade di Lugano, deve ancora diventare unico. Senza per forza omaggiare il coyote di Collateral che fa la stessa cosa in quel di Los Angeles.