Dove e quando
Marocco. Roberto Polillo. Fotografie 2005-2018. Lugano, Musec, Villa Malpensata. Spazio Maraini. Fino al 6 settembre 2020. www.mcl.lugano.ch


Immagini come ricordi

Al Museo delle Culture di Lugano esposte le evocative immagini del Marocco scattate da Roberto Polillo
/ 25.05.2020
di Gian Franco Ragno

Nello spazio Maraini del Museo delle Culture di Lugano, da qualche tempo a Villa Malpensata, è in corso la prima retrospettiva del viaggiatore e fotografo milanese, Roberto Polillo (1941). Un Museo, quello luganese, che ha sempre inserito nelle sue attività espositive la nuova arte nata nel diciannovesimo secolo, attraverso alcuni precisi centri di interesse: la fotografia storica di viaggio svizzera (Fosco Maraini – appunto, a cui è dedicato lo spazio – Gotthard Schuh, Walter Bosshard, Peter Werner Häberlin), autori italiani meno conosciuti dal grande pubblico (il linguista degli anni del fascismo Ugo Pellis, e, altro friulano a noi contemporaneo, Elio Ciol) oltre ad artisti più di ricerca (Roberto Stephenson), sino alle indagini approfondite, a tutto campo, sulla base di un patrimonio acquisito e custodito per quanto riguarda il Giappone, dalle albumine colorate di metà Ottocento alle diapositive storiche.

Polillo è un autore autodidatta che inizia il suo percorso ritraendo in un classico bianco e nero una serie di musicisti jazz, come un altro grande fotografo approdato all’astrattismo, Aaron Siskind. E ciò non appare un caso: per lungo tempo il jazz è stato inteso come forma d’arte simbolo di un riscatto interraziale, senza confini ideologici, aperto a molteplici influenze etniche, sinonimo – in poche parole – di un grande laboratorio creativo.

Nelle immagini in esposizione, curata da Moira Luraschi e Imogen Heitmann, ci si concentra e focalizza sul Marocco, uno dei molti viaggi di Polillo – ma in prima battuta va affrontata la tecnica alla base di tutte le immagini esposte.

Si tratta di una sorta di mosso controllato, che produce immagini frammentate in più piani secondo un asse perlopiù verticale: ciò rende le figure indefinite, galleggianti in uno spazio etereo e dominato da macchie di colore, a volte con poche dominanti – prendendo spunto visivo una veste color ocra – mentre in altre la paletta di colori risulta ricchissima di tonalità, come si trattasse un arazzo. Ciò che restituisce il fotografo rispetto al suo viaggio è, insomma, un Marocco immerso in una quantità stupefacente di luce e colore – tra Mediterraneo e Oceano Atlantico. Non vi sono ritratti nel senso stretto del termine, nemmeno precise riprese collocabili nello spazio: l’impressione è quella di trovarsi di fronte a un ricordo più che a una fotografia.

Il pensiero corre a quello che scrisse nel 1914 sul suo diario riguardo allo stesso Paese Paul Klee: il pittore, accompagnato dai colleghi August Macke e Louis Moilliet, ebbe una sorta di rivelazione e confessò che in quel luogo il colore lo possedeva, facendolo diventare finalmente un pittore completo.

Tornando alla mostra, il merito dell’autore milanese è quello di non riproporre l’Altrove per quello che pensiamo che sia prima di incontrarlo. Egli evita l’approccio oleografico, lo stile fotografico alla «National Geographic» – l’enfasi sulla composizione e sui paesaggi spettacolari, i ritratti in primo piano – che ha il rappresentante più conosciuto (e imitato) in Steve McCurry.

Insomma, riassumendo in breve, l’Altrove, prima dell’Altro in questi tempi così svalutato, è quel luogo a cui associamo fondamentali significati simbolici e esistenziali, àncora di un percorso interiore. Come fu per un altro viaggiatore, o sarebbe meglio dire, un vero nomade contemporaneo, Bruce Chatwin. Per quest’ultimo la fotografia è un frammento di un’esperienza che ci portiamo a casa, facendoci sentire meno stanziali nella prospettiva e speranza di un’altra ripartenza.