Il tempo vuoto che vuoto non è

In un mondo assordante il silenzio a volte è difficile
/ 27.12.2016
di Maria Bettetini

«Sempre caro mi fu quest’ermo colle». Il poeta manifesta amore per una collina e per la siepe che la sovrasta, chiudendo come un sipario lo sguardo sul panorama dell’entroterra marchigiano. Perché un Leopardi poco più che ventenne ha «caro» proprio ciò che sembra ostruire la vista, imprigionare il legittimo desiderio di fuga? Dove potrà correre un giovane chiuso da un colle e una siepe? Il poeta, però, non corre, non fugge, né questo sembra desiderare. Il poeta sta seduto, guarda e immagina panorami da far paura al cuore: interminati spazi, sovrumani silenzi, profondissima quiete. L’infinito finisce bene, il naufragare nel mare dell’immensità è dolce al poeta.

Cambio di scena: ospedale milanese, medicina iperbarica. Vestiti con le divise delle carceri Usa, ingentilite dal colore azzurro, coperti da lungo camice ignifugo e calzari altrettanto potenti nel mettere in fuga il temutissimo fuoco per autocombustione di ossigeno, un manipolo di individui di varia età si avvia verso una sorta di batiscafo. Sembriamo i Puffi, «noi Puffi siam così, noi siamo tutti blu», la forma dei calzari da gnomo sottolinea l’irrealtà di questo travestimento, obbligatorio per chi si sottopone a terapia iperbarica, a respirare quindi ossigeno puro per un paio d’ore, chiusi nel batiscafo dove l’aria è compressa come se ci si fosse calati a 14 metri di profondità. Ci si sottopone a questa cura per molti e svariati motivi, quel che c’è di buono è che finalmente è una terapia che male non fa, e magari risolve anche qualche problema. Ogni giorno, le donne della comitiva si ricordano l’una con l’altra che, addirittura, la pelle e i capelli ne trarranno giovamento, grazie a una maggiore ossigenazione.

Ringrazio il lettore per aver seguito fin qui l’apparentemente incongruo racconto, il susseguirsi di poesie del 1819 e vita di ospedale di ieri. Ma il senso c’è, eccome: forse non tutti sanno che durante la terapia non si può né leggere né scrivere, né tantomeno usare telefoni e computer, o qualunque altro arnese, compresi gli orologi, è meglio evitare infatti di causare incendi, esplosioni e altre spiacevoli conseguenze della pressione dell’aria unita all’ossigeno che siamo qui a respirare. Uomini e donne del ventunesimo secolo sono obbligati a tacere, a pazientare, quindi a pensare. Ebbene, sembra incredibile, ma ecco un luogo dove si «sente» il trascorrere del tempo, non si può sfuggire, non ci sono sabbie dove nascondere la testa, non ci sono rumori con cui distrarsi. Non ci si può nemmeno assopire, la situazione è scomoda, illuminata e rumorosa.

I neofiti, tutti lo siamo stati, hanno paura, non solo terrore di ciò che non si conosce, ma paura di un tempo che sembra infinito, che sembra non finire mai, quindi forse non finisce mai. Le nostre unità di misura non sono di aiuto, perché sulla lunghezza di mezze ore, scandite da brevi pause, non siamo preparati. I nostri dialoghi di solito sono scambi di battute e di emoticon, le nostre letture sono didascalie delle immagini che dappertutto ci piovono addosso, i nostri pensieri sono concentrati su cosa accendere, cosa ascoltare, cosa spegnere per ascoltare altro. Meglio: cosa abbassare per sentire «anche» altro. La nostra attenzione ha la tenuta di uno spot, che però gode dei benefit di musica, colori, sceneggiatura, regia, nomi noti di attori e prodotti. E quando siamo soli davanti a un tempo che non possiamo misurare, potenzialmente infinito, senza gli ausili della tecnica, senza alcuna distrazione, allora ci sentiamo perduti. Abituati ad affrontare il presente nascosti dal rumore di fondo di voci, musiche, panorami, che mutiamo sperando di mutare con loro. E lo diceva Seneca, nel suo trattato sulla serenità, che cambiano i cieli sopra di noi, ma non lo stato della nostra anima, perché sono con noi le cose da cui cerchiamo di fuggire. E ribadiva Agostino di Ippona: «Gli uomini vanno a contemplare le vette delle montagne, i flutti vasti del mare, le ampie correnti dei fiumi, l’immensità dell’oceano, il corso degli astri, e non pensano a sé stessi». Per questo è prezioso l’aiuto di un argine all’infinito, all’abisso che può essere sublime come infernale, la nostra paura va placata.

Dentro la camera iperbarica, fuori dal mondo, la sopravvivenza l’ho trovata nell’afferrare quel tempo, nell’imporgli dei limiti, cantando canzoni, recitando poesie e preghiere, quando il pensiero si perde. A poco a poco, col passare dei giorni, quelle ore non mi hanno fatto più paura, perché so di poterle riempire di pensieri e parole, ricordi e canzoni, ma anche di non doverlo fare, perché a volte i pensieri sgorgano sereni. È come domare un animale selvaggio, gestire un tempo senza argini, non per niente i carcerati segnano i giorni trascorsi in prigione, contano quelli mancanti al rilascio. Porre steccati all’infinito, questo ce lo rende amico, meno spaventoso, quasi vicino. Questo aveva capito il giovanotto malinconico di Recanati, che proprio la «siepe che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude» rende il pensiero e il cuore capaci di immaginare silenzi, spazi, voci, di perdersi in un infinito dove il naufragare è dolce.