Il tempo di ogni vita

In ricordo del poeta e saggista Adam Zagajewski
/ 19.04.2021
di Guido Monti

«Davvero nulla muta / nell’ordinaria luce diurna, / quando se ne va un grande poeta. / … // Quando, però, ci dovremo allontanare per molto / o per sempre da qualcuno che amiamo, / sentiremo improvvisamente che ci mancano le parole / e che saremo noi, da soli, a dover parlare: / più nessuno provvederà per noi / – perché se ne è andato un grande poeta». Questi alcuni dei versi di una poesia di Adam Zagajewski presente nel libro-antologia, Guarire dal silenzio, pubblicato da Mondadori nella collana Lo specchio e uscito nel settembre scorso per la cura e traduzione di Marco Bruno e che racchiude una scelta ben ponderata del percorso artistico dell’autore, dall’ultima raccolta del 2019, La vera vita, agli esordi nei primi anni Settanta.

Sì, Adam Zagajewski, quasi ricalcando questi versi mirabili scritti nel 2009, si è spento il 21 marzo scorso a Cracovia sua città di elezione, nel modo in cui del resto ha puntellato tutta la vita, le relazioni, in punta di piedi, quasi davvero che il suo momento finale si fosse coronato di quel modo discreto d’essere e stare al mondo: sparire senza troppo disturbare, per indole.

Nato a Leopoli nel 1945, città di confine in quel momento polacca, ed eternamente contesa dalle potenze belligeranti, è stato erede di una tradizione letteraria tra le più significative del novecento europeo, che vide in Herbert, Miłosz, Różewicz, i più alti rappresentanti; ma ne fu anche l’ultimo, poiché i poeti di una generazione più giovane si erano a costoro ribellati, accusandoli di «retorica, magniloquenza, moralismo e altri peccati mortali» come lui affermò con un filo di ironia in una intervista.

Zagajewski è stato capace con la sua poesia, di cogliere i grandi temi consustanziali all’uomo ma sempre partendo dalla quotidianità e come un pittore affamato delle tante sue sfumature, sapeva darne il giusto accento nella tela variegata della pagina; ma da ogni pennellata linguistica, prendeva forma nel verso, per paradosso, lo stigma di ciò che transitorio non è, di ciò che l’effimero porta codificato nel suo bruciare: «Ecco: rivedo quei ragazzi, nel sole / meridiano, li rivedo saltare nel mare / schiacciandosi il naso fra le dita a Istanbul / … / Non so se fossero felici, ma io / lo fui, per un attimo, nel fulgore / del giorno di maggio, nel guardare /».

Zagajewski ha saputo trattenere nell’urna luccicante della poesia, la cenere chiarissima della vita, il suo sfavillio, la sua estrema volatilità, facendo intuire che solo e ogni attimo è fondante, non certo le progettualità esasperate della nostra contemporaneità già presenti nel secolo scorso e utilizzate talvolta nelle forme più deleterie, per alimentare e attuare le imperanti e nefaste ideologie del nazional socialismo prima e del real socialismo dopo, che costrinsero appunto quest’uomo e la sua famiglia, a migrare in giovane età da Leopoli a Gliwice, città della Polonia centrale e poi successivamente in età matura a Parigi.

Zagajewski quindi cosa fa nella sua scrittura, se non mettere alla berlina le vaste progettualità che si fanno prassi? fagocitando e rendendo inerti nella loro espansione, gli attimi dell’uomo, privato sempre più di quello spazio vitale e intimo che gli è consustanziale: «Prima ci sono i programmi, / poi i resoconti / … / Tutto dev’esser previsto / Di tutto bisogna / dopo / raccontare / Ciò che succede davvero / non richiama l’attenzione di nessuno».

Quell’attimo che il poeta è riuscito nelle pagine a dilatare, rendendolo eterno e dove dentro gioca un ritmo strofico, capace di far dialogare tempi e territori assai lontani; e allora si reinnesta nella cifra del verso un ordine che non è più quello della progettualità analitica occidentale, ma dell’intuizione, retaggio della grande cultura orientale, e così nella pagina tutte le visioni giocano in un idillio circolare sovraordinato a qualsiasi paradigma razionale. Donne e uomini sembrano nominare, nei dialoghi col poeta, non il tempo che è stato, ma, partendo da quello, il tempo che verrà e che tornerà e che di nuovo imploderà; passano nel libro le figure, si animano e poi spariscono dietro il quadro intatto della specie che rigermina appassionatamente nel suo ostinato DNA. E il grande sfondo naturale o cittadino col suo proscenio, si apre e chiude continuamente su ogni singola comparsa, come mosso da mani terribili ma giuste, perché pronte a parificare ognuno di là dei meriti, delle colpe, innanzi al tempo della fine.

Sembra chiedersi il poeta ostinatamente: chi c’è dietro queste mani? Forse Dio? O la natura in sé, con i suoi rigogli e appassimenti, in un quadro meccanicistico o il suo mostrarsi cela il canto, la voce di qualcuno? Ma per Zagajewski, essa comunque è un sussurro fondamentale al pari di quello dell’uomo. Così come la voce della musica che amò perdutamente ma «da barbaro», come mi confidò, sembra riprendere vita in tanti versi con quei suoni udibili e inudibili, spartiti lancinanti a crocifiggere con le proprie cronache sonore, le cronache di guerra ma anche quelle dell’amore più alto: «La musica ascoltata con te / resterà per sempre con noi. // Il serio Brahms e l’elegiaco Schubert, / alcune canzoni, la quarta ballata di Chopin, / … // La musica ascoltata con te / si ammutolirà insieme a noi».

Ecco, un dialogo ininterrotto è stato il libro di Zagajewski, con i morti e i vivi, in forma di poesia ma anche di saggi, ne ha scritti di rilevanti, di interviste rilasciate ma sempre in posizione di ascolto, tanto che le sue risposte avevano dentro la sfumatura della domanda, del rilancio continuo con l’interlocutore; costruire un verso era ricostruire, richiamandola, ogni amicizia, la tanto agognata, rincorsa, sperata amicizia. Questo disse di lui, uno dei più grandi poeti del secondo Novecento, Iosif Brodskij, in una intervista rilasciata nel 1989: «…mi sembra che sotto vari aspetti rappresenti uno sviluppo del linguaggio di Herbert.

È un poeta straordinario, per me è stato la scoperta più importante degli ultimi dieci o quindici anni, e infatti siamo molto amici io ed Adam ed è una delle migliori amicizie che ho avuto in vita mia. Tutto qui». Sì, l’amicizia, per Zagajewski, ora intuisco, volle dire far riemergere dalle pagine silenziose della storia, l’attimo di questa preziosa relazione, che rende il tempo di ogni vita, il tempo più bello.