Il teatro vivo e vivificante di Peter Brook

È morto a 97 anni uno dei più grandi registi del Novecento
/ 11.07.2022
di Giovanni Fattorini

Nel corso di un’avventura teatrale di insolita lunghezza, Peter Brook ha indagato mondi geo-culturali diversissimi fra loro (Europa, Africa, Asia), attingendo e adattando inventivamente modi espressivi propri delle loro tradizioni spettacolari, e compiendo scelte di repertorio apparentemente eclettiche. L’arco eccezionalmente ampio della sua attività di regista si configura tuttavia come un coerente processo di semplificazione e di avvicinamento a quello che lui chiamava «teatro elementare e necessario». «Elementare», in quanto teso al raggiungimento di un massimo di intensità attraverso il minimo impiego di mezzi extra-attoriali; «necessario», perché utile allo spettatore. E dicendo «utile» non si vuol dire didascalico, perché Brook ha sempre creduto che il teatro deve essere anzitutto divertimento e comunicazione energetica. 

Nato a Londra nel 1925 da genitori russi emigrati prima in Francia, poi in Belgio, infine in Gran Bretagna, Brook firma la sua prima regia nel ’42, quando è studente a Oxford, mettendo in scena il Doctor Faustus di Marlowe. Nel ’45 e nel ’46, con la Royal Shakespeare Company, inscena Re Giovanni e Pene d’amor perdute. Unico e imprescindibile per profondità di sguardo, ampiezza di visione e intensità poetica, Shakespeare è l’autore al quale farà più volte ritorno, con risultati talora straordinari, come nel ’62 con Re Lear, e ancor più nel ’70 col meraviglioso Sogno di una notte di mezza estate: spettacolo che fece per due anni il giro del mondo, e in cui erano presenti due degli aspetti che si ritroveranno in tutta la sua successiva attività registica: la semplificazione (nel corso del tempo sempre più radicale) dell’apparato scenografico, e l’impiego, per gli allestimenti al chiuso, dell’illuminazione a giorno. 

Dei suoi venti spettacoli shakespeariani, sono di assoluto rilievo anche La tempesta del 1990 (che era un’ulteriore e affascinante tappa nel viaggio di approfondimento delle culture teatrali extraeuropee, in particolare del teatro orientale), e La tragedia di Amleto del 2001 (Amleto era il trentacinquenne William Nadylam, di padre africano e madre indiana, e il pubblico era disposto lungo tre lati di un tappeto quadrangolare color rosso fiamma che era lo spazio quasi vuoto di una rappresentazione in piena luce).

Quanto agli spettacoli degli anni Sessanta (coi quali intendeva concretizzare il suo modo d’intendere i principi artaudiani del «teatro della crudeltà»), menzionerò soltanto la messinscena de Il balcone di Jean Genet (1960), e quella, sconvolgente, famosissima, del Marat/Sade di Peter Weiss (1964), di cui nel ’66 diresse anche un’affascinante trasposizione cinematografica.

L’anno del Sogno, il 1970, è anche l’anno di un svolta decisiva. Accogliendo certe suggestioni del «teatro povero» di Grotowski, Brook si trasferisce a Parigi e fonda il Centre International de Recherches Théâtrales (C.I.R.T.), che nel ’71, a Persepoli, rappresenta Orghast: uno spettacolo con 25 attori di nazionalità diverse, e una lingua appositamente elaborata dal poeta Ted Hughes mescolando suoni e parole tratte anch’esse da lingue diverse. Con questo spettacolo, Brook si proponeva di «scoprire le condizioni per elaborare un teatro della semplicità, un teatro capace di parlare a spettatori completamente diversi tra loro per bagaglio culturale». 

Altra data fondamentale è il 1974: Brook assume la direzione del malandato Théâtre des Bouffes du Nord (situato nel decimo arrondissement, in prossimità della Gare du Nord), lo rende agibile a norma di legge e ne fa la sede della sua compagnia. L’anno seguente va in scena uno spettacolo a mio parere poco riuscito, Gli Iks (ispirato dalla lettura di un libro dell’etnologo inglese Colin Turnbull e da un viaggio di ricognizione in Africa compiuto con la compagnia), che si occupa di una tribù africana prossima all’estinzione. Dall’interesse sempre più vivo per le realtà culturali e geo-politiche dell’Africa nasceranno altri spettacoli. Ne menzionerò solo uno del 1989 che mi è piaciuto molto, Woza Albert, basato su un testo satirico anti-afrikaner splendidamente interpretato da due soli attori (il senegalese Mamadou Dioume e il malinese Macary Sangaré) che davano vita a una ventina di personaggi. 

La ricerca di una forma elementare di drammaturgia raggiunge il suo culmine col fluviale e splendido The Mahabharata (di cui Brook dirige anche una versione filmica), ispirato al monumentale poema epico indiano composto di circa 120’000 strofe (lo spettacolo, che durava dalle nove di sera alle sei del mattino, debuttò nel luglio del 1985 in una cava a circa 15 km da Avignone). Altri spettacoli basati su un testo drammatico meriterebbero almeno una menzione. Mancando lo spazio, concluderò parlando brevemente della messinscena di un’opera lirica: il Don Giovanni di Mozart, presentato in prima mondiale al Festival di Aix-en-Provence (il giovane Daniel Harding dirigeva la Mahler Chamber Orchestra) il 9 luglio del 1998.

«Don Giovanni non è il “gran peccatore”. È un uomo che vive l’istante, è così che si presenta ai nostri occhi, vive l’istante con incredibile verve». In questa dichiarazione erano condensate le motivazioni fondamentali della vitalistica, meravigliosamente fluida concertazione di gesti e movimenti dei cantanti diretti – in quanto attori – dal regista anglo-francese. Ancora una volta, sorprendeva e affascinava un tratto peculiare della genialità di Brook: la capacità di coniugare la verità (cioè il realismo) del gesto attoriale e l’antinaturalismo degli elementi scenici. Lo spazio dell’azione era un praticabile quadrangolare, leggermente aggettante oltre la ribalta e sempre illuminato a giorno. Alla fine, per consentire agli interpreti di ringraziare il pubblico, il praticabile veniva rapidamente liberato dai pochi e semplici arredi: diventava «lo spazio vuoto» (the empty space) – che è anche il titolo di un famoso saggio di Brook – dotato del potere di attirare a sé gli attori-personaggi, traendoli dalla zona d’ombra che lo circondava.