Il carcere è una dimensione che il luogo comune non riesce a identificare come fonte di lezioni positive. Un sentimento di disagio avvolge la realtà detentiva come presenza sociale accettata e come luogo di punizione. Uno spazio coercitivo in cui espiare colpe racchiuse in un codice, in un sistema creato dall’uomo con l’obiettivo di redimere attraverso la pena, l’esclusione, l’annientamento sociale. Il carcere è la sede di un crudele processo di dissoluzione della personalità, un non-luogo dove l’individuo perde gradualmente la sua dignità che si confonde con la disperazione.
Il carcere è l’altrove su cui la XXIII edizione del Festival internazionale di narrazione con l’emblematico titolo di Vedersi di fronte ha voluto incentrare buona parte delle sue proposte sull’arco di quattro intense (e bollenti) giornate nei borghi e nelle corti di Arzo e Meride. Percorsi dove il tema principale ha convissuto con racconti destinati a giovani e bambini senza dimenticare spettacoli legati alla drammaturgia contemporanea. Il tutto accompagnato da interpreti eccellenti, una costante che ha caratterizzato l’offerta festivaliera rendendola unica e riuscita. Con il suo centro tematico il cartellone non ha lasciato nessuno a bocca asciutta, intrigando il pubblico con proposte provenienti da esperienze esemplari maturate soprattutto nel difficile contesto carcerario italiano inserite nel progetto Il teatro, una finestra aperta sul carcere sostenuto dal programma di integrazione cantonale del Dipartimento delle Istituzioni.
Il carcere, dunque, con le sue identità variegate e ricche di umanità negata, è un terreno fertile per la narrazione laddove il teatro diventa la destinazione ideale per chi lo vuole raccontare utilizzando la scena come strumento di educazione e, per certi aspetti, veicolo di redenzione. La forza dell’esperienza raccontata in House we left di Alessandro Sesti con Cecilia di Donato accompagnata dai Greasy Kingdom ha narrato un’esperienza vissuta guidando una sezione transgender del carcere di Reggio Emilia lungo il sentiero teatrale. Lasciate le loro case, le detenute devono affrontare un luogo nuovo, estraneo, che cancella la loro esistenza nella società e racconta storie che generano interrogativi nella consapevolezza degli errori commessi.
Toccante e profondo è il racconto di Davide Mesfun con Sguardi a confronto presentato dietro le sbarre del cancello della suggestiva vecchia dogana, ormai dismessa, sulla via fra Arzo e Clivio. Una verità in carne e ossa che ha ripercorso la sua via, lunga e dolorosa, verso il riscatto per cui sta scontando 24 anni: «ho cambiato diversi istituti e dopo un tremendo periodo di isolamento, mi sono detto, o vai o rimani, ma se rimani non puoi pagarla due volte». Per Davide, ex-rapinatore oggi detenuto in semi libertà a Opera, il teatro dentro il carcere e l’esperienza del carcere si fanno teatro esperienziale grazie a un percorso educativo e professionale. È il risultato di un laboratorio realizzato con detenuti della casa di reclusione e con studenti che ha assunto una forma esemplare riconosciuta dall’Università Bicocca.
C’è anche chi invece ha raccolto le testimonianze di donne in attesa di incontrare i parenti detenuti di Poggioreale a Napoli. Come Eduardo Di Pietro con Il colloquio con i suoi attori Renato Bisogni, Mario Cangiano, Marco Montecatino (nella foto). Un’ora di schietta veracità partenopea nella tragica condizione di chi unisce il fatalismo alla sofferenza, fra il sorriso e l’amarezza di una vita negata. Bello e intenso.
Nel corso dei diversi e interessanti incontri con autori e protagonisti dei progetti sviluppati sulla scena, sebbene mettendo in forte evidenza l’umanità così ricca e frastagliata presente in un carcere, ci è forse mancato l’appuntamento con l’approfondimento del suo universo culturale, inteso come società di invisibili costruita fra le mura della società stessa. Una realtà fatta di regole, di gerarchie, con la sua morale e la sua giustizia, spesso spietata. Come ad esempio nei confronti di stupratori e pedofili. È un aspetto difficile da raccontare e da accettare se, in qualche modo, non lo si è vissuto in prima persona, ma è una dimensione presente che si tramanda all’interno di spazi dove tutto trasuda coercizione e isolamento. Una constatazione che vuole allontanare il pericolo di quel buonismo che spesso avvolge un tema sensibile come una nuvola protettiva, come una distanza che permette una sorta di oggettività nei confronti di una realtà della quale è necessario però imparare la grammatica per evitare di trasformarci nei soliti antipatici e morbosi colonizzatori del male.
Alle proposte legate al tema del carcere abbiamo anche voluto aggiungere un’iniziativa originale accanto a spettacoli orientati alla drammaturgia contemporanea. Come Vasi comunicanti che, giunto alla sua quarta edizione, esito teatrale di un progetto transfrontaliero che ha coinvolto quattro autori dopo un periodo di residenza: Chiara Boscaro, Stefano Beghi, Allegra de Mandato e Angela Demattè. Ne è uscito un collage di quattro storie di una memoria collettiva raccolte fra Clivio, Saltrio, Meride e Besazio da cui emerge la forza sociale di vicende legate alle comunità di confine. Una Microstoria come chiosa fra le pagine della grande Storia, raccontata con efficacia da Alice Pavan, Susanna Miotto, Emanuele Arrigazzi e Stefano Beghi nella corte interna di Casa Fossati a Meride. Per un’incursione nel contemporaneo ci siamo dapprima affidati a Gli altri. Indagine sui nuovissimi mostri di Nicola Borghesi e Riccardo Stabilio. È un’indagine sui giorni nostri, fra urla di rabbia e disperata solitudine, fra espressioni di superficiali e volgari spinte collettive all’odio della shitstorm mediatizzata e in cui ci si può imbattere fra le pagine dei social con hater impuniti. Con un’energia straordinaria, Borghesi si fa interprete di un’indagine originale e coraggiosa nata dai commenti sessisti di un giovane pizzaiolo locale all’indirizzo di Carola Rackete al momento del suo arresto a Lampedusa, dopo essere approdata con la nave Sea-Watch con a bordo 42 migranti salvati dal naufragio. Borghese entra nella storia di quella giovane vittima delle contraddizioni del sistema.
Il racconto di una coppia di potere è invece quello scritta da David Lescot e interpretato da Elvira Frosini e Daniele Timpano ne Gli sposi. Romanian tragedy sul palco del Giardino Castello di Arzo. Con il suo stile inconfondibile, la coppia teatrale romana esplora con ironica, surreale e divisiva forma caricaturale, la storia di Nicolae Ceausescu e Elena Petrescu, i sanguinari e capricciosi Macbeth dei Balcani destituiti e giustiziati sommariamente nel 1989 dopo un ventennale delirio di onnipotenza vissuta sulla pelle del popolo romeno. Momenti teatrali preziosi, incastonati nella cornice di un festival che anche con questa edizione ha lasciato al pubblico innumerevoli spunti di riflessione su come leggere il passato e il presente.