L’immaginario nutrito dai film di Fellini, di cui quest’anno ricorrono i cent’anni dalla nascita, è un patrimonio universale popolato di fotogrammi risalenti ai canonici momenti delle sue indimenticabili realizzazioni. Immagini ovviamente, ma anche suoni. Anzi spesso è lì che l’immaginario felliniano rivela le sue vere radici, quelle che affondano nel mondo dei saltimbanchi, quelli di ogni tempo e quelli del suo tempo, dell’avanspettacolo, di una marginalità che, nel rifiuto delle regole sociali, diventa simbolo della ricerca dell’assoluto, di una verità non incarnabile nel mondo dell’ovvio.
Ed è un’immagine soprattutto sonora nel modo in cui le note di fanfare clownesche si intrufolano con procedimento associativo a rovesciare la normalità nel suo contrario, senza che l’impianto immaginifico subisca modifica, a significare la presenza costante di un mondo alternativo. È quindi importante riconoscere l’apporto di colui che ha concretamente tradotto in suoni (nei suoni specifici dell’opera felliniana) tale immaginario, quel Nino Rota il quale dal 1952 si assunse l’incarico (fino alla morte di Rota avvenuta nel 1979) di contrappuntare di musica tutti i film di Fellini, fissando già nella fantasiosa ouverture de Lo sceicco bianco la cifra espressiva relativa al risvolto circense delle vicende che il regista faceva sfilare sullo schermo.
In occasione della scomparsa dell’amico, il grande regista così ricordava il loro primo incontro: «Quando sono andato a casa sua la prima volta, mi ha presentato subito la mamma e poi il pianoforte, al quale si è seduto suonicchiando un motivo che già aveva preparato. Era il tema di Lo sceicco bianco. Questo prima ancora che io confusamente gli dicessi che desideravo avere la sua musica, se aveva tempo e voglia di farla. Quel motivo struggente che suonava Nino andava già benissimo […] E da quella prima nota, da quella prima frase, la cosa è continuata con un flusso inarrestabile, al punto che mi sembra sempre che sia lo stesso film: non ho la sensazione di aver fatto tanti film» («Il messaggero», 13 aprile 1979).
Il circo, al cui mondo Fellini dedicò un intero film (I clown) non solo forniva diretta ispirazione ma anche il materiale musicale. Sappiamo che Fellini sul set usava dirigere gli attori al ritmo di musichette, fra le quali la Marcia dei gladiatori di Fucik era diventata un luogo comune. Toccava poi a Rota elaborare una variante specifica di tale topos della musica circense. Sebbene vi fosse un caso (ne La dolce vita) in cui la celebre marcia di Fucik rimase tale e quale nella colonna sonora (perché così volle Rota stesso), il musicista felliniano mise a punto un suo stile inconfondibile culminato nella marcia di Otto e mezzo, che formalizza la sguaiatezza in tratti geometrici, ma che soprattutto introduce in una musica che sgambetta atleticamente una vena di nostalgia, quel rovescio di umanità complice con cui Fellini guarda al mondo del circo come a un mondo perduto.
È la nostalgia che a livello più struggente troviamo nella melodia della tromba di Gelsomina in La strada, nell’improvviso ribaltamento del discorso in tonalità minore che si accomuna ad altri procedimenti (l’impiego palese dell’abusato accordo di settima diminuita ad esempio) nello sfaccettare la linearità dell’ovvio. A chi conosce l’opera di Nino Rota sottratta alla tutela felliniana – quel Cappello di paglia di Firenze che andrebbe ascritto fra i capolavori del teatro musicale novecentesco – apparirà chiara la matrice della sua musica, che è quella rossiniana, di una scrittura d’azione, ridotta a nervi scoperti e a muscoli in tensione, a volte addirittura marionettistica (raccogliendo il filone della commedia dell’arte). Nell’universo felliniano tale ispirazione di Rota introduce nel fisico pulsare del presente una venatura di passato, l’azione del ricordo, quasi sempre nostalgico, sfacciatamente melodico, di italianità dichiarata, organica, delle radici, là dove tragedia e commedia si confondono.
Lo testimoniò lo stesso Fellini: «In Amarcord, nella sequenza dello struscio, si introducono con funzione evocativa, vecchi motivi propri della canzone americana degli anni Trenta da Siboney a Stormy Weather, da La Cucaracha a Abat-jour. In questa sequenza Nino li ha sfumati, amalgamati, trasformati, innestati nei suoi motivi originali con un’operazione di straordinaria abilità professionale, che provoca nello spettatore un impatto di magico risucchio nel mondo dei ricordi».
Il suono felliniano
Nessuno riuscì a creare una simbiosi tra immagini e musica al pari di Nino Rota, con cui Federico Fellini lavorò per tutta la vita
/ 07.12.2020
di Carlo Piccardi
di Carlo Piccardi