Il suono della pittura

Un’iniziativa del Museo d’Arte di Mendrisio propone un gemellaggio tra le arti significativo e affascinante: è il primo di una serie
/ 21.06.2021
di Alessandro Zanoli

C’è una sala, nel percorso espositivo attualmente dedicato a Sergio Emery al Museo d’arte di Mendrisio, (mostra aperta fino al 4 luglio, v. «Azione» 24 maggio, La pittura come esplorazione, A. Brughera) in cui sono raccolti alcuni lavori particolari, quadri realizzati prendendo ispirazione dalla terra e dal paesaggio dell’Umbria. Ci chiniamo a leggere l’etichetta con le indicazioni relative a una tela di grandi dimensioni, attraversata da fitti e spessi colpi di pennello neri, grigi, gialli e bianchi: Terra Arata, recita la didascalia, e precisa: «(Armonico dissonante), 1994».

Nell’aria, attraverso i corridoi del museo, galleggiano note di contrabbasso: un richiamo un po’ triste e ancestrale ma che si accorda perfettamente con questa immagine. Sulla parete a fianco, un più piccolo disegno in matita e tempera sembra riprodurre altre lontane colline dell’Umbria. Il titolo qui è inequivocabile: Musicale, 1995. Emery deve aver forse trovato un’analogia visiva tra uno spartito e questo profilo lineare, rarefatto. Ultima suggestione, ancora più chiara: grande tela quadrata, pennellate energiche di nero, alternate su tutta la superficie, macchie che suscitano bizzarre associazioni di idee. Ricordano forse pulsazioni di tamburo, dinamiche, figure geometriche da ascoltare. Il titolo del quadro che è di fronte a noi? Ritmo in nero, acrilico su tela, 1994-96.

L’iniziativa proposta due sabati fa dal Museo, sotto il titolo di «Jazz in mostra» ha colpito nel segno. L’idea di chiedere ad alcuni jazzisti di animare i corridoi e le sale con le note dei loro strumenti, lasciandosi ispirare dalle suggestioni pittoriche di Emery ha trovato una piena disponibilità da parte dei musicisti. Come ci ha confermato al termine del concerto il chitarrista Bebo Ferra, sia nella pratica di solista così come in quella di compositore un jazzista è abituato a confrontarsi con le immagini visive. «Se conosci la mia musica puoi crederla una colonna sonora perfetta per il cinema. Nasce sempre da suggestioni visive. Descrive atmosfere, paesaggi. È una cosa che succede a livello inconscio, non è che io stia realmente pensando a quello. Qualcosa che non hai codificato coscientemente ma che riesci a rendere visivo».

Oltre a questa, diciamo, «predisposizione» del jazz a fare da accompagnamento alle immagini (e del resto sono numerosi gli esempi di gemellaggio tra pittura e improvvisazione musicale reperibili sul mercato discografico) resta il fatto che gli ambienti silenziosi del museo si prestano in modo eccezionale alla performance degli strumenti. All’improvviso ci si rende conto di come tutto questo spazio sia in realtà un «vuoto» architettonico, in grado di suscitare echi e riverberi di grande profondità e intensità. Sia il contrabbasso di Riccardo Fioravanti (come sua postazione ha scelto un angolo di corridoio, di fronte a un gigantesco Cactus dipinto da Emery) sia il sassofono di Max Ionata acquistano una voce solenne e anche un po’ mistica (e del resto non possiamo dimenticare che ci troviamo tra le mura di un antico convento...).

Ionata non ha scelto una collocazione fissa ma, brandendo il suo sax, percorre i vari corridoi, sfiorando i visitatori e soffermandosi ogni tanto davanti ad alcune tele. La vicinanza col pubblico, numeroso e attento, è inusuale. Chi ascolta riesce a percepire persino quel bellissimo, caratteristico rumore: il soffio che attraversa lo strumento. Un fruscìo sottile, modulato, che è la marca stilistica di molti grandi nella storia del jazz.

I musicisti si sono dati il cambio nella loro personale esplorazione sonora dell’esposizione: l’ultimo a entrare in scena è stato il batterista Nicola Angelucci. Il suo strumento è collocato al centro di una delle sale più belle, quella che ospita le grandi opere dedicate all’atterraggio a Magadino di un bombardiere americano, Nel settembre del ’43. L’ambiente molto ampio potrebbe far risuonare in modo eccessivo le rullate e i colpi sui tamburi. Forse per questo Angelucci sceglie di eseguire la sua improvvisazione colpendo le pelli in un primo tempo solo con le mani, poi più leggermente con le spazzole di metallo. Anche qui è bella la concomitanza: le opere di Emery così vistose e cariche di energia, suscitate dalla visione dell’enorme aeromobile, sembrano interpretate, tradotte in suono dagli scoppi cadenzati.

Ora, la curiosità di chi assiste a questa affascinante performance è sapere se Emery fosse in qualche modo un appassionato di jazz: lo conferma il figlio Nicola, il quale ricorda il padre ascoltare assiduamente durante il suo lavoro la musica di Chet Baker, di Stan Getz, di Milt Jackson. Oltretutto, nel suo periodo di studio milanese, negli anni 50, Emery si era cimentato come musicista proprio alla batteria.

Il cerchio si chiude dunque, tra questa proposta e l’avventura artistica del pittore ticinese: ora i musicisti si spostano nel chiostro del Museo dove per il piacere del pubblico proporranno un vero concerto. E, per informazione di chi legge, è importante sapere che l’esperienza verrà ripetuta, nei prossimi mesi. Varrà la pena di parteciparvi.