Il serial-killer di Ali Abbasi ha scosso la Croisette

Da Cannes/1 Holy Spider un film da Palma d’oro
/ 30.05.2022
di Nicola Falcinella

L’unica volta che un film iraniano ha vinto la Palma d’oro a Cannes è stato nel 1997 con Il sapore della ciliegia di Abbas Kiarostami. Questo potrebbe essere l’anno del bis per il cinema persiano che ha presentato le pellicole più interessanti e convincenti tra le 21 in lizza.

Holy Spider di Ali Abbasi, già noto per Border – Creature di confine prodotto in Svezia è stato senza dubbio il più convincente.

È la storia vera di un assassino seriale di prostitute nella città santa di Mashhad nel 2001. Si prende a cuore il caso la giornalista Arezoo che fa di tutto per incastrare il colpevole, nonostante il pregiudizio e il maschilismo che condizionano il suo lavoro. Abbasi svela presto il colpevole, il suo intento va oltre l’indagine. C’è la follia criminale di un veterano di guerra contro l’Iraq negli anni ’80, tanto ossessionato da lanciare una jihad contro le «donne corrotte» e «pulire» la città. Il film parte con un prologo durissimo, l’omicidio della nona vittima della serie, si chiude in maniera sorprendente e lascia un’ombra minacciosa. Abbasi non si tira indietro nel mostrare la violenza (l’impiccagione è simmetrica ai singoli omicidi, quasi a metterli sullo stesso livello) e inquieta nel descrivere moglie e figlio dell’assassino.

Altra dura critica alla società iraniana, rigida, classista e maschilista, viene da Leila’s Brothers di Saeed Roustaee. Un dramma familiare molto lungo e molto parlato, elaborato nelle sfumature dei dialoghi che fanno emergere sogni e rancori. Alla morte del cugino, l’anziano Esmail vuole diventare patriarca della sua famiglia. È il suo ultimo sogno dopo una vita di umiliazioni che ha spesso cercato di nascondere. Per essere designato deve però promettere di regalare 40 monete d’oro a un parente che si sposa. I suoi cinque figli, che sono tutti disoccupati e vivono con i genitori, non sono d’accordo, giacché vorrebbero utilizzare la somma per comprare un negozio. Un film sulla ricerca di riscatto e su condizioni sociali difficilissime, ma anche con momenti di tenerezza, come la fotografia di famiglia prima del matrimonio.

A caratterizzare molti dei film in competizione sono stati il ridotto utilizzo di scene di massa con grande uso di interni o di ambienti molto aperti (probabilmente per praticità girando in condizioni di pandemia) e le trame incentrate su pochi personaggi.

L’unico in cui si parla di Covid è Stars at Noon di Claire Denis, un rarefatto thriller politico dalle atmosfere esotiche girato in Nicaragua. È la storia della giovane giornalista americana Trish (la bellissima Margaret Qualley) che, in cerca di notizie, si mette nei guai. La Denis sa creare tensione e belle immagini, ma forse non ha moltissimo da dire, se non la pervasiva presenza statunitense in America Centrale.

Non deludono i fratelli Dardenne, già due Palme d’oro all’attivo, con Tori et Lokita. Siamo a Liegi e Lokita è una giovane proveniente dal Benin che viene interrogata dai servizi sociali, che vogliono conoscere i dettagli su come avrebbe ritrovato il fratello minore Tori in un orfanotrofio. I due sono ospiti di un centro di accoglienza, il piccolo ha un permesso di soggiorno perché perseguitato come «figlio di una strega», l’altra aspetta i documenti. Nel frattempo eseguono consegne per un ristorante e recapitano droga per conto del cuoco. Indebitata con i passatori che li hanno fatti arrivare in Belgio, la ragazza accetta un compito delicato.

I Dardenne confermano il loro stile essenziale, non mollano un istante i loro protagonisti, mostrano una storia attualissima, seguendo i fatti e proponendo dilemmi, come sempre senza fare prediche ma con una morale solida e sempre dalla parte di chi ha meno diritti.