Uno dei sommi direttori del Novecento, Wilhelm Furtwängler, confessava di invidiare i pianisti perché «loro hanno Chopin». Tra i suoi fortunati colleghi v’era Arthur Rubinstein, che del Polacco incise praticamente tutto e ne fu interprete idolatrato in tutto il mondo; ma quando, nel 1960, da giurato del Concorso Chopin di Varsavia ascoltò un pianista milanese di 18 anni, dovette ammettere : «questo suona già meglio di tutti i noi». Il giovane fenomeno era Maurizio Pollini, consacratosi come uno dei massimi pianisti di sempre grazie a una tecnica granitica, a un’intelligenza analitica e a una lucidità interpretativa senza pari.
Ogni sua esibizione è salutata come un evento, da Tokyo e la Scala ai festival di Salisburgo e Lucerna. E non poteva non esserlo anche al LAC: nonostante il firmamento del concertismo mondiale si specchi nel cartellone di LuganoMusica, da Yuri Temirkanov con la Filarmonica di San Pietroburgo a Tony Pappano con l’orchestra di Santa Cecilia, senza dimenticare il gran debutto dell’opera lirica con Gianandrea Noseda a guidare nel maestranze del Teatro Regio di Torino in Bohème, il nome più scintillante è comunque quello di Pollini.
Per capire quanto sia atteso il suo recital di mercoledì basti pensare che è esaurito da varie settimane, con gli appassionati che si sono affrettati a comprare i biglietti prima ancora di conoscere il programma che avrebbe presentato. È stato annunciato pochi giorni fa e, per la gioia di chi ci sarà, al centro della locandina campeggia proprio Chopin: due Notturni, la Ballata in fa minore, la Berceuse e lo Scherzo op. 20. «È stato il primo amore ed è rimasto una costante in tutta la mia carriera, nonostante abbia allargato e molto il mio repertorio» confessa riferendosi soprattutto a Beethoven, di cui ha inciso due volte l’integrale delle Sonate, e ai moderni, di cui è stato strenuo apostolo; anche stavolta inserirà i Sei piccoli pezzi op. 19 di Schönberg, chiudendo la serata con il secondo libro dei Preludi di Debussy.
«Negli anni il mio modo di suonare Chopin è profondamente mutato: prima ero più rigoroso, evitavo i “rubati” (rallentamenti e libertà ritmiche, ndr.) perché erano stati fin troppo usati in una certa tradizione ultraromantica, negli ultimi anni invece me li concedo sempre più». Sembra quasi una sconfessione da parte di un musicista di cui si è sempre sottolineata l’estrema razionalità: «Mi appassionano l’analisi della forma e la definizione dell’architettura di un brano, ma non la razionalità come valore assoluto: ciò che cerco in una partitura sono gli aspetti comunicativi, quegli elementi che possano darci gioia nell’ascoltarli. C’è un livello oggettivo di lettura che tiene conto dei segni lasciati dall’autore sul pentagramma, ma il senso profondo penso possa essere compreso solo attraverso un criterio eminentemente soggettivo: le emozioni che una musica riesce a suscitare in noi, interpreti e pubblico. Lo ripeto, è un criterio soggettivo, ma è l’unico che funziona veramente».
Da sessant’anni scandaglia il senso profondo dell’opera di Chopin, analizzando, riflettendo ed emozionandosi: «Mi sento sempre più vicino alla sua musica e di conseguenza sono sempre più cosciente della fortuna che ho a poter attingere a un patrimonio tanto prezioso; per arrivare all’essenza di Chopin il percorso non è semplice, sembra sempre che tenti di difendere il segreto delle proprie note, quasi detestasse la musica che non contenga un pensiero latente». Come nei Notturni: «Sono una sorta di diario intimo, compositivo ed esistenziale. I primi attestano già una genialità e un’originalità assolute, ma Notturno dopo Notturno le note acquistano profondità, l’armonia diviene più complessa e gli accordi si moltiplicano; George Sand racconta dello scrupolo infinito con cui Chopin li curava, spesso sottoponendoli a innumerevoli varianti; era insoddisfatto perché tutto teso alla perfezione». Un lavoro «sulla tecnica e sui minimi dettagli» che accomuna compositore ed esecutore: «Forse l’aspetto più affascinante del mio lavoro è riuscire a ottenere dal pianoforte esattamente i suoni che voglio; sembra facile da suonare, invece è facile suonarlo male, non sfruttandone tutte le possibilità espressive».
Possibilità indispensabili in Debussy, anche se Pollini rifiuta di definirlo un impressionista: «È un pregiudizio diffuso, ma lo trovo limitante e lui stesso non amava applicare questo termine alla musica; sicuramente fu influenzato da Chopin e dalla sua abilità di trarre dai tasti sonorità incantatorie». Contemporanei ai Preludi ma diversissimi sono i Pezzi di Schönberg: «Non amo sottolineare le differenze tra i suoi periodi compositivi: se quello postromantico vale Wagner e Mahler, ha un’espressività fortissima anche il periodo atonale, pur nell’estrema razionalità della forma». Schönberg e Webern, Stockhausen e Boulez: per decenni Pollini si è impegnato a diffonderne l’opera. «Un tempo neppure troppo lontano a concerto si ascoltavano solo musiche nuove, oggi la situazione è capovolta: i programmi elencano quasi solo brani del passato, con classici e romantici è più facile avere successo, ma così i concerti diventano musei. Rimango comunque fiducioso: i contemporanei diventeranno ascolti abituali. Mahler, che non era neanche dodecafonico, ha iniziato ad entrare in repertorio negli anni 70, mezzo secolo dopo la sua morte; la Nona di Beethoven fu stroncata dai contemporanei e ancora ai tempi di Wagner, che la diresse, era ritenuta inascoltabile. Quindi…».