L’oscurità ben si addice al pensiero nipponico, così lontano, rispetto all’occidente, dalle statuarie certezze della luce e della razionalità. Sarà per questo che l’importante mostra Kakemono, cinque secoli di pittura giapponese, inaugurata lo scorso luglio al MUSEC – Museo delle Culture di Lugano, accoglie il visitatore come un antro in cui si spande il chiarore di una torcia: l’illuminazione è fioca, calda, quasi rimandasse alla sostanza del Libro d’ombra, celebre saggio del grande Jun’ichirō Tanizaki sullo spirito del proprio paese.
Progetto a cura dello storico dell’arte Matthi Forrer nato dalla collaborazione fra l’istituzione ticinese e il MAO – Museo d’Arte Orientale di Torino, la mostra attinge al ricco archivio del collezionista Claudio Perino ed è «la più estesa esposizione mai dedicata» all’argomento (si tratta di opere che vanno dal XVI al XX secolo).
Come giustamente sottolinea Marco Guglielminotti Trivel nella sua nota introduttiva al catalogo, per chi è alieno a questa cultura, qui, innanzitutto, sarà interessante notare come a differenza degli artisti occidentali – tradizionalmente ossessionati dalla fedeltà al soggetto – i pittori del Sol Levante praticassero già originariamente stili «impressionistici», «espressionistici» e «astratti»: ciò che conta non è infatti la somiglianza, ma l’essenza; non si tratta di rappresentare, ma, piuttosto, di trasformare.
Ecco dunque che dopo essere stati accolti, a inizio percorso, da una coppia delle splendide corazze cerimoniali già esposte al MUSEC all’epoca di Il samurai, da guerriero a icona, il pubblico comincia il suo viaggio inoltrandosi in una radura tempestata di volatili: Kachō-ga: dipinti di fiori e di uccelli è infatti il primo, classico nucleo tematico della mostra. Tratteggiate da abili artigiani al fine di decorare stanze di palazzi che avrebbero dovuto accogliere ospiti di riguardo o per essere esibite durante riti all’aperto, le bestiole che figurano su questi rotoli di tessuto o carta (i kakemono, appunto) sono tipici simboli della tradizione: fagiani che richiamano alla felicità coniugale, usignoli su rami di pruno celebranti la primavera, galli con galline e pulcini a sottolineare l’importanza dell’armonia familiare.
Già in questo gruppo di opere subito balzano all’occhio, con la maestria dei pittori, quelle che si presentano come le caratteristiche portanti di quest’arte (e di questa cultura): un dominio pressoché totale della composizione imperniato su un sapiente utilizzo del vuoto, l’estrema parsimonia nell’utilizzo dei colori, la creazione di molteplici forze e direzioni in una o più forme, un fortissimo ed equilibrato legame tra gesto e segno.
E dopo una breve parentesi dedicata ad alcune figure antropomorfe (divinità, seguaci e discepoli del Buddha, monaci e geishe), col terzo nucleo tematico sono ancora le bestie a spadroneggiare: e benché in confronto alle evocazioni di pennuti gli altri membri del mondo animale rappresentino una minoranza, l’intensità di queste presenze è a dir poco indubbia: potenti tigri dai grandi occhi affiancano le forme monche di impetuosi draghi (secondo una credenza, difatti, la visione di questo essere mitico nella sua interezza non è sostenibile all’occhio umano) mentre carpe che lottano controcorrente incarnano la forza della perseveranza; vi sono poi famiglie di scimmie attaccate da api indiavolate, leoni cinesi dalla criniera d’inchiostro, minuscoli cani dal pelo color del Tao e pacifici cervi.
Le ultime due sezioni della mostra sono invece rispettivamente dedicate a Piante e fiori vari e ai Paesaggi. Nella prima, dove, ancora più che nelle rappresentazioni di animali, a ogni specie è associata una precisa stagione con le sue feste e le sue usanze (non va dimenticato che i kakemono erano tematicamente esposti a seconda del periodo dell’anno), un ruolo di rilievo lo ha certo il bambù, la cui raffigurazione era, per letterati e artisti, un arduo esercizio assimilabile a quello della calligrafia; infatti, tale era l’impegno richiesto dalla pratica da far sì che certuni vi dedicassero l’intera esistenza.
Nella seconda, infine, si ammirano vedute particolareggiate – rigorosamente prive di tinte – in cui spesso scorgiamo minute figure umane, piccoli templi, padiglioni ed edifici. Qui, specialmente in certi dipinti in cui è rappresentato il mitico Monte Fuji o in alcune immagini di cascate, al visitatore appare ancora evidente quel sopraccitato, sapiente utilizzo del vuoto che tanto caratterizza non solo un modo di intendere l’arte, ma la vita: è attraverso la messa in evidenza del contorno del cielo che la montagna appare, poiché yin e yang attraversano l’esercizio del pennello nella misura in cui governano le leggi dell’universo.
Dove e quando
Kakemono, Lugano, Museo delle culture, Villa Malpensata. Orari: lu-do 11.00-18.00; ma chiuso. Fino al 21 febbraio 2021. www.musec.ch

Kiyosei or Shōsei, Una tigre con aspetto feroce, forse perché
disturbata da un intruso nel suo territorio. Tardo XIX sec. Firmato Kiyosei e con sigillo Shobiko/Kiyosei.
Dipinto a inchiostro e colori su seta (Collezione Perino)
Il segno, l’essenza e il vuoto
Fino a febbraio, cinque secoli di pittura giapponese al MUSEC di Lugano
/ 21.09.2020
di Daniele Bernardi
di Daniele Bernardi