Torna come ogni anno il Giorno della Memoria, il quindicesimo da quando è stato istituito sul piano internazionale (il decreto ONU è del 1. Novembre 2005), non senza il consueto corredo di polemiche. È importante ricordare infatti che l’appuntamento non ha mai fatto l’unanimità, nemmeno negli ambienti ebraici: in un provocatorio pamphlet del 2014 Elena Loewenthal si distanziava da queste celebrazioni, ree di riportare l’attenzione sugli «ebrei morti», dimenticando i vivi, quelli toccati soltanto in parte dalla tragedia o che comunque non si riconoscono in quella dinamica di «risarcimento» che finisce per connotare retoricamente la giornata. Il problema sta anche nel manico (cioè nel nome) e nel quesito che questo solleva: memoria di che cosa? Della Shoah, naturalmente, ma anche degli altri crimini e delle altre vittime del nazismo (omosessuali, testimoni di Geova, comunisti, prigionieri politici, rom) troppo spesso dimenticati, lungo una linea che facilmente arriva ad abbracciare tutti i genocidi di ogni tempo e paese, dai nativi americani agli armeni.
Al di là delle polemiche, nel profluvio di appuntamenti annuali e giornate internazionali dedicate alle più svariate cause il Giorno della Memoria continua a fare eccezione per almeno un paio di motivi: la portata e le dimensioni della Shoah, che non possono essere messe in discussione, e il progressivo venire meno dei testimoni. Da un lato un fatto storico piantato come un monolite nel mezzo del Novecento, dall’altra il nostro lento ma inesorabile allontanarci da esso, anno dopo anno, generazione dopo generazione.
A questo si aggiunga il fatto che, sin qui, il Giorno della Memoria e più in generale il ricordo dell’Olocausto sono stati connotati soprattutto in un senso: da Anna Frank in poi, e in misura maggiore durante la cosiddetta «epoca dei testimoni» (gli ultimi tre decenni), ha prevalso l’immedesimazione empatica con la vittima, con tutti i limiti che possono derivare da simili dinamiche e i dubbi, legittimi, sulla loro valenza educativa e anche sul loro valore in sede storiografica. Non possiamo rinunciare invece a indagare tutta la complessità del fenomeno Shoah, compenetrando la «memoria» (intesa come testimonianza delle vittime) con la disciplina della ricerca storica, che è costantemente in progress e spesso lontana dalla ribalta mediatica. È questo l’invito di un piccolo libro uscito recentemente da Einaudi a firma del suo presidente Walter Barberis e intitolato Storia senza perdono.
Il testo di Barberis è utile a chi voglia ricostruire l’evolversi della narrazione della Shoah negli ultimi settant’anni, dal silenzio iniziale rotto soltanto da alcune voci eccezionali (Primo Levi) accolte con diffidenza persino da chi sarebbe stato, sulla carta, più predisposto ad ascoltarle (la stessa Einaudi), alla sequenza dei processi che iniziò a portare alla luce la reale estensione di quell’orrore: l’aridità giuridico-burocratica di Norimberga (1945-46) e, all’altro estremo, la spettacolarizzazione mediatica dell’impiccagione di Eichmann a Gerusalemme (maggio 1962) segnano due tappe di questa evoluzione, che soltanto in tempi recenti ha iniziato a prendere sul serio la voce delle vittime, fino a farla diventare preponderante. Barberis discute e mostra le derive di questa tendenza, i tanti testimoni fasulli che hanno sfruttato il momento propizio per costruirsi a posteriori, non senza qualcosa di patologico, lo statuto di vittima.
Su un punto però non è possibile concordare con Barberis ed è là dove il suo libro, recuperando il secondo elemento del titolo, da tesi si fa sentenza: «I tempi esigono talvolta che si proceda al “perdono”. Per quale ragione una vittima dovrebbe concedere un “dono” al suo assassino rimane misterioso. […] Il perdono è la più alta forma di amnistia; e la amnesia è la sua diretta conseguenza». Barberis pensa non tanto ai singoli quanto alle società e alle nazioni, colpevoli di rifiutare, promuovendo o accettando richieste di perdono, una più coraggiosa «azione di profilassi», quasi dei «protocolli di igiene politica e sociale». Il non-perdono avrebbe quindi l’esito, con il suo perenne monito rivolto al passato, di distaccare dal corpo sano di una società la sua componente malata.
Al di là delle formule un po’ infelici, mi pare che la migliore risposta a questo troppo sbrigativo accantonamento della questione (su perdono, oblio e costruzione di un futuro possibile si leggano almeno le pagine di Paul Ricoeur e Desmond Tutu) giunga dalla stessa letteratura della Shoah, e da un «cacciatore di nazisti» per antonomasia come Simon Wiesenthal che nel suo Il girasole mostra sì i limiti del perdono, non prima però di averne saggiato a fondo gli effetti sulla propria vita. Durante l’incontro con un nazista morente macchiatosi di crimini orrendi (l’incendio di una palazzina stipata di prigionieri ebrei) Wiesenthal non seppe concedere il perdono richiesto e per anni continuò a chiedersi se avesse agito bene. Quel dubbio non solo lo spinse a scrivere il libro, ma gli suggerì di condividerlo con una vasta platea di intellettuali, da Habe a Marcuse a Senghor, da Levi a Todorov. Il dibattito attorno al testo di Wiesenthal è stato uno dei massimi esercizi di libertà e di confronto dialettico suscitati dalla memoria della Shoah. E importa poco in fondo la risposta dei singoli, più propensi a concedere il perdono quelli di cultura cattolica, meno quelli di tradizione ebraica; importa che l’esercizio sia stato fatto e che continui tuttora in altre voci.
I lettori di lingua italiana, grazie alle pagine radicali di Primo Levi e alla severa dolcezza di Liliana Segre («Non perdono, ma non odio»), sono stati stimolati a interrogarsi sulla «zona grigia» nella quale si muovevano i collaborazionisti, i prigionieri di grado superiore, i Sonderkommandos, insomma le vittime meno frenate da ragioni morali e più portate a sfruttare la situazione a loro vantaggio. La zona grigia inizia a un soffio dagli animi più puri e termina a un passo dal carnefice più efferato: è l’estensione stessa della libertà umana a delimitarne i confini e tutti rischiamo di percorrerne, prima o poi, una pur minima parte. Perché la linea che separa i sommersi e i salvati di ogni epoca è dettata dal destino, ma anche dalla responsabilità individuale.
Tenere presenti questi aspetti, sui quali ci invita a riflettere il direttore del Museo di Auschwitz Piotr Cywinski nel suo libro Senza fine, è forse la chiave di volta per continuare a promuovere in modo attivo e veramente utile il confronto con quel passato presso le nuove generazioni, soprattutto in occasione del Giorno della Memoria. A poco vale il continuo ribadire l’orrore dell’Olocausto se altri olocausti, solo numericamente inferiori, continuano ad accadere sotto i nostri occhi in ogni parte del mondo. Il sorriso dei nazisti in gita a pochi chilometri dal lager, ripreso in una celebre foto, assomiglia terribilmente anche al nostro.