Jean-Pierre Changeux, uno dei padri della moderna neurobiologia e delle neuroscienze (Premio Balzan 2001), attento indagatore sull’origine cerebrale della creazione artistica, fra le sue innumerevoli e acute osservazioni aveva anche notato che il processo della memoria nell’uomo fa intervenire non soltanto l’approntamento di percorsi, ma altresì la rilettura di tali percorsi. Sullo stesso concetto di memoria, sui processi di apprendimento, sulla rielaborazione delle esperienze catalogabili nella nostra memoria si sono concentrate molte analisi, ricerche, riflessioni che sono inscindibili dalla realtà che diventa ricchezza di ognuno di noi, archivio e valore collettivo.
Al tema della memoria sono in qualche misura collegate due produzioni andate in scena a Lugano. La prima, del Teatro Pan, è L’arte della memoria, un titolo che sembra preso in prestito da un celebre saggio di Frances Yates del 1972. Lo spettacolo, al suo debutto al Foce, è frutto di una scrittura collettiva che ha coinvolto Cinzia Morandi, Nicola Cioce e Sissy Lou che ne ha anche curato la regia. Prende spunto da un semplice interrogativo: che cosa significa ricordare e attraverso quali immagini si raggiunge quella parte di cervello che alimenta le emozioni? Morandi e Cioce vi giocano per circa un’ora sfruttando oggetti semplici, un alter-ego riflesso in uno spazio non identificabile, senza tempo.
Un uomo e una donna per un duo teatrale che non si prende sul serio per fare arrivare in sala l’intensità di emozioni ricreate attraverso lo stimolo del ricordo nei suoi vari stadi. In loro c’è padronanza teatrale, ludica, leggera sempre sul limite di un girotondo tematico ben strutturato. Dalle tasche del loro arioso e candido costume di scena spuntano oggetti fra i più disparati, grazie ai quali affiorano alla mente situazioni, sentimenti, età, luoghi e profumi che altrimenti rimarrebbero confinati pigramente nell’ippocampo cerebrale, nell’oblio della quotidianità.
È sorprendente come, sulle ultime battute dello spettacolo, ritroviamo disposti su un tavolo tutti gli oggetti protagonisti dei racconti dei due attori, pronti a far rivivere altre avventure aggiungendo nuovi particolari a esperienze vissute. L’arte della memoria è uno spettacolo intelligente, capace di veicolare concetti complessi con esemplare semplicità. Secondo gli autori vorrebbe essere dedicato a un pubblico adulto ma, dopo averlo visto, siamo quasi certi che non dispiacerebbe anche a una platea più giovane.
Su un fronte tematico analogo, è andato in scena CORPOmemory una performance firmata da Ariella Vidach e Claudio Prati (AiEP, Avventure in Elicottero produzioni) alla sua prima assoluta al LAC. In questo caso la memoria riflette un carattere digitale dove un ruolo fondamentale viene assunto dallo smartphone: un corpo tecnologico che è custode della nostra identità e archivia i nostri ricordi: foto, parole, video, indirizzi… a comporre le trame del vissuto. Un oggetto della memoria che il pubblico, seduto a cornice su due livelli di gradini, è invitato a usare interattivamente ponendosi in dialogo con la scena attraverso dei testi, tra i più disparati, che vengono proiettati sui fondali della sala in una studiata sequenza grafica.
È una sfera intima condivisa a confronto con lo spazio e con la danza di Marina Bertoni, Dafne Borgotti, Sofia Casprini, Carola Invernizzi, Ilaria Quaglia con la mobile vocalità campionata di Margherita D’Adamo. La scena si anima, i corpi si agitano dilatandosi individualmente e nell’insieme. Un impatto suggestivo, a tratti frenetico.
Fra parole casuali scritte sul cellulare (anche scatola sonora) fa breccia infine una testimonianza di violenze sulla donna. Una coda d’attualità per non dimenticare che il corpo ricorda.
Coreografia generosa, concetto postmoderno e platea al completo.