«Archi, Archi, sempre Archi di noia», scriveva di Bologna Mario Pozzati nel 1916. La città sembrava noiosa, conservatrice, chiusa in sé stessa. Marinetti nel 1920 la definisce affetta da «Lue passatista» con le «torri come virilissimi membri bolognesi d’una volta». È proprio qui che il 5 febbraio 1909 il quotidiano cittadino «Gazzetta dell’Emilia» pubblica come articolo di spalla il manifesto di fondazione del futurismo firmato F.T. Marinetti. Ripubblicato poi, in francese, il 20 febbraio su «Le Figaro». Marinetti arriva a Bologna il 19 gennaio 1914 e con il suo staff crea un grande scompiglio. Due mesi dopo all’Hotel Baglioni si apre la prima mostra futurista della città. Partecipano Giorgio Morandi, Mario Bacchelli, Osvaldo Licini, Giacomo Vespignani e Severo Pozzati. Sicuramente non sono futuristi a parte Vespignani. Morandi, Licini e Pozzati sono amici e li chiamano «i tre tortellini».
Forse solo Morandi (1890-1964) assurge a figura altissima della pittura italiana. Si è creato il mito dell’artista solitario. In realtà è molto partecipativo: collabora con la rivista «Valori plastici», entra in contatto con i futuristi e aderisce alla Metafisica; partecipa alle mostre del Novecento dal 1926 al 1929. Un percorso lungo e articolato negli anni anche se non si è mai quasi spostato da Bologna e da Grizzana ove trascorre le estati. Alla fine la sua è una ricerca interiore che predilige una quiete operosa.
Rilegge Paul Cézanne e Jean-Baptiste-Siméon Chardin ai quali viene paragonato per i suoi lavori puliti, didascalici, essenziali.
All’inaugurazione dell’antologica bolognese del 1966 Cesare Brandi dice di lui: «C’è sempre qualcosa che non quadra con la civiltà i cui termini in parte sono presenti». Il sodalizio fra Brandi e Morandi è un’amicizia che testimonia un sistema di pensiero univoco. Ma è Roberto Longhi che lo fa conoscere al pubblico bolognese durante una sua prolusione presso l’università felsinea nel 1934: «E finisco col trovare non del tutto casuale che uno dei migliori pittori viventi d’Italia, Giorgio Morandi, ancor oggi, pur navigando nelle secche più perigliose della pittura moderna, abbia però saputo sempre orientare il suo viaggio con una lentezza meditata, con un’affettuosa studiosità, da parere quelle di un nuovo incamminato».
La sua pittura è tonale, alla francese (Chardin, Corot), e rifiuta le esperienze scenografiche o recitanti. Insomma niente Vincent Van Gogh, niente Pablo Picasso, niente Tintoretto. Morandi è «diverso», solitario, appartato, introspettivo. Anche se è proprio lui che favorisce la lettura delle sue opere secondo fasi determinate, come scrive Marilena Pasquale. E lo fa a volte distruggendo dipinti che potrebbero andare in altre direzioni. Secondo Longhi il suo percorso si inserisce all’interno di quello bolognese – separato dagli influssi toscani – che va da Amico Aspertini ad Annibale Carracci fino a Giuseppe Maria Crespi.
Per capire Morandi però bisogna entrare nella dolorosa e travagliata vicenda legata al libro di Francesco Arcangeli. Morandi ha settant’anni e Arcangeli quarantacinque. Siamo attorno al 1960. Morandi sollecita il critico e amico a scrivere un lungo saggio su di lui. Arcangeli redige uno dei testi più importanti e controversi. Alla fine dopo aver scritto sulle influenze del Futurismo e della Metafisica, Arcangeli inserisce il lavoro di Morandi all’interno di quella sua creatura chiamata «ultimo naturalismo», cioè l’informale padano. Morandi dissente e ne vieta la pubblicazione dopo lunghe correzioni e tanta intensa corrispondenza. Il volume uscirà dopo la morte dell’artista. Insomma un personaggio impositivo, che sa esattamente quello che vuole e soprattutto come ottenerlo.
Casa Morandi si trova in via Fondazza. La famiglia ha avuto l’abitazione al numero 38 e Giorgio dal 1933, fino alla morte nel 1964, al numero 36. Da una finestra è possibile vedere il piccolo cortile con al centro un’aiuola con una pianta d’ulivo. Poi attorno vengono edificati nuovi palazzi e per questo nel 1959 l’artista si fa costruire una casa a Grizzana dove la famiglia trascorreva le estati dal 1927. La casa di via Fondazza nel 1993 viene smantellata e trasferita a Palazzo D’Accursio. Fino al 2009 quando il comune di Bologna riacquista il vecchio appartamento e vi ritrasferisce tutti gli oggetti. Oggi il visitatore può vedere i suoi tre tavoli, i pochi mobili, i tubetti a olio Windsor and Newton. Luigi Magnani scrive ne Il mio Morandi che usava «bianco d’argento, giallo di Napoli, terra di Siena, lacca di garanza, verde smeraldo, cobalto, blu di Prussia…». Poi le scatole di cartone e di latta e i barattoli, le conchiglie, i manichini e le famose bottiglie che rendeva bianche agitando al loro interno dello stucco liquefatto. Simona Tosini Pizzetti nota infine che nello spartano letto «è ancora visibile l’incavo lasciato dall’artista che si sedeva sempre nello stesso posto per incidere le lastre di metallo». Sul comodino i libri tra i quali Gitanjali di Rabindranath Tagore, le Poesie e le Prose di Giacomo Leopardi.
Una casa spartana, spoglia, esattamente come lui. Cesare Brandi la descrive così: «In questa casa d’affitto, tutto è modesto, ma tutto è lindo, tutto è lucido di quella lucentezza che ha una storia come la buona educazione, una storia di attenzioni e di rinunzie». Il nuovo allestimento è stato affidato all’architetto Massimo Iosa Ghini e nel percorso vi è una selezione di fotografie, libri e documenti, un’installazione audio-video, una sala polivalente e una biblioteca di 600 volumi.