Il rapporto storico tra la musica e le istituzioni

Il rinnovamento di André Grétry
/ 13.03.2023
di Carlo Piccardi

Da sempre la musica è legata alle istituzioni, ma non da sempre i musicisti si interrogano sulle istituzioni. Ciò avviene solo da quando si è cominciato a vedere nell’apparato istituzionale non più l’emblema di un potere dato al dì là della volontà dei governanti e dei governati, bensì lo strumento di una progettualità basata sul consenso manifestato nella collettività. È dunque nella Rivoluzione francese che va individuato il nucleo di una presa di coscienza in grado di cogliere la dipendenza dell’espressione artistica dal suo ruolo nella società e dalle condizioni d’impiego e di diffusione postele dalle istituzioni. È nella Rivoluzione francese, nel relativismo di una situazione aperta alle prospettive di costruzione dell’utopia, che si apre uno spazio di confronto tra la condizione effettuale dell’arte e la sua possibile funzione alternativa all’ordine dato. La musica, nella sua necessità di dipendere da apparati produttivi, risentì immediatamente dell’effetto di mutate condizioni e, attraverso le applicazioni di Gossec, Catel, Méhul, Cherubini e altri, trovò modo di formulare progetti compositivi di nuovo conio (innodia rivoluzionaria, musiche cerimoniali, ecc.) che, per quanto legati a una stagione ben delimitata (dall’89 all’esecuzione di Robespierre), misero a fuoco atteggiamenti e stilemi che giustamente consideriamo come il marchio accompagnante l’afflato democratico che spira su molta musica dell’Ottocento (da Beethoven a Berlioz, da Verdi a Mahler, ecc.).

La traccia di tale situazione si lascia cogliere anche in un nuovo modo da parte dei teorici di considerare la musica; ed è allora tanto più significativo il fatto che, ad aprire la via a nuovi criteri di giudizio, non sia stato un puro uomo di dottrina bensì un musicista che mise la sua arte al pari delle personalità già citate al servizio delle nuove esigenze rivoluzionarie. Si tratta di André Grétry (1741-1813), autore dei Mémoires ou Essais sur la musique (Parigi 1789, prima edizione; Parigi 1797, edizione ampliata), dove la trattazione degli aspetti estetici, culturali, storici, concernenti l’arte dei suoni si intreccia strettamente con la sostanza autobiografica di un discorso condotto in prima persona, che, anche nel momento di più convinta professione di fede, si lascia riportare all’esperienza del vissuto personale, relativizzato al valore dell’esperienza individuale, non più dell’assoluto bensì del possibile. Lo si evince soprattutto dal Livre quatrième del terzo tomo che tratta esplicitamente Des institutions politiques, considérées dans leurs rapports avec l’Art musical, forse la prima testimonianza nella storia moderna di riflessione organica sul rapporto tra musica e politica, tra musica e apparati di produzione. Vi domina innanzitutto l’idea illuministica dell’arte come strumento di ammaestramento, dell’arte morale della nuova epoca contrapposta all’arte che si alimentava nel lusso delle corti, ostaggio delle pigre abitudini aristocratiche. La condizione di libertà è appunto il principio ritenuto essenziale alla possibilità dell’arte di esprimere i valori morali, affermato al punto da prefigurare il discorso adorniano sull’autenticità nella visione di un’arte costretta dal dispotismo a ripiegare su se stessa, a trovare uno spazio privato, «reservato» di libertà.

Il primo livello di moralità dell’arte si manifesta attraverso la sua funzione didattica e quindi nella sua possibile applicazione scolastica: il canto come mezzo d’istruzione del futuro cittadino e di propaganda delle nuove idee. Morale diventa la stessa condizione dell’artista, il cui riconoscimento non potrà più dipendere dagli intrighi ma potrà essere concesso solo su verifica dell’opinione pubblica e della capacità di questa di responsabilizzare in tal compito l’autorità delegata. E quindi normale che, al di là della concezione ancora settecentesca assegnante alla musica strumentale un ruolo subordinato in quanto ritenuta vuota e inespressiva, sia il teatro a essere indicato come luogo deputato all’affermazione di un’esemplarità di comportamento rivolta all’intera collettività.

Il teatro vi è d’altra parte organicamente inteso nella sua ramificazione funzionale nell’organizzazione sociale, considerato nei benefici procurati in quanto fattore economico di attivazione di professioni specifiche: riunione delle arti non solo come simbolico confluire di risorse provenienti da discipline artistiche diverse, ma anche come occasione di impiego aperto sui vari fronti delle specializzazioni, particolarmente apprezzato per il ruolo assegnato alle donne altrimenti esposte ad occupazioni degradanti.

In tale visione integrata di estetica e di economia, con l’appello al governo a farsi carico delle arti e delle scienze in quanto attività non lucrative è prefigurato il ruolo «culturale» dello stato moderno. Meno esattamente prefigurante è il suo progetto di «nouveau théâtre» retto da un direttorio composto di tre poeti e tre musicisti assegnati stabilmente a questo compito e chiamati a vivere in comunità nel teatro stesso, mobilitato in permanenza e perciò più simile a un comitato di salute pubblica che a una moderna commissione artistica. In tale prospettiva utopica sta il limite di una visione integralistica e deterministica che accomuna le riflessioni di Grétry al radicalismo delle ipotesi formulate sul piano politico dai protagonisti delle più calde vicende rivoluzionarie. D’altra parte, nell’esitazione con cui il compositore prospetta grandi sale per un pubblico di massa e soprattutto nell’«élan terrible» riscontrato nella musica francese della nuova era, non è difficile cogliere la nostalgia per un ideale artistico più raffinato, per un retaggio non del tutto rimosso dell’ancien régime che a Grétry, autore del Guillaume Tell (1791) e de La rosière républicaine (1794), aveva pur sempre riservato la consacrazione.