Bibliografia

Ulas Samchuk, Maria. Cronaca di una vita, Edizioni Clichy, Firenze, 2022.


Il racconto della grande fame

Il romanzo di Ulas Samchuk, tradotto per la prima volta in italiano, affronta anche la tragedia dell’Holodomor
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di Pietro Montorfani

«Morirai, figliola. Nel mondo enorme non è rimasta neanche una piccola briciola di pane per te… neanche un po’…». Sullo sfondo del feroce conflitto che infiamma in questi giorni la regione ucraina si staglia come un monito la tragedia dell’Holodomor, la «morte per fame» (moryty holodom) che toccò in sorte a milioni di persone nel biennio 1932-33. Che non esista a tutt’oggi un accordo sul numero esatto delle vittime, da un minimo di 1,5 milioni per gli studiosi più prudenti, a un massimo di quasi dieci per i nazionalisti ucraini, non cambia la sostanza dei fatti.

Una buona introduzione al tema, senz’altro romanzata ma lucida sulle questioni fondanti, è il lungometraggio della regista polacca Agnieszka Holland L’ombra di Stalin (in originale Mr. Jones), presentato al Festival del film di Berlino nel 2019. È la ricostruzione del primo, vero reportage sulla carestia ucraina, ad opera del giornalista gallese Gareth Jones (1905-35), già consulente per gli affari esteri del primo ministro inglese Davide Lloyd George, opposto ai resoconti edulcorati del Premio Pulitzer Walter Duranty che dai comodi salotti moscoviti usava la sua rete di contatti in Occidente per smentire e sminuire le accuse più gravi. Che Duranty fosse, indirettamente, sul libro paga di Stalin non fa onore alla categoria, mentre Gareth Jones è ancora oggi ricordato in Ucraina – dove si parla senza mezzi termini di «genocidio» voluto dal regime sovietico – con la riconoscenza che si tributa a un eroe nazionale. 

Le ricerche più recenti concordano che il 1932 fu un anno particolarmente infelice per la produzione di cereali in quello che è sempre stato definito il granaio d’Europa, e che l’intenzionalità del regime intervenne soltanto in un secondo momento, per sfruttare al massimo una tendenza già in atto. 

Le scelte scellerate di Stalin, deciso a piegare le resistenze dei contadini benestanti (i kulaki), contribuirono infatti ad accrescere enormemente la carestia alzando le quote di grano richieste all’Ucraina dal governo centrale e arrivando persino a impedire di seminarne una parte per l’anno venturo (1933). 

Per chi voglia approfondire il tema con solidi dati statistici, consiglio la lettura di The 1932 Harvest and the Famine of 1933, il saggio di Mark B. Tauger pubblicato su «Slavic Review» (vol. 50, Cambridge University Press, 1991, pp. 70-89). 

La tragedia fu di portata tale che la letteratura, nonostante il contesto non favorevole per la libertà di espressione, fu subito ricettiva e pronta al racconto della grande fame. Lo fece il giornalista e scrittore ebreo di origine ucraina Vasilij Grossman, nell’anta minore del trittico che si compone di Stalingrado (già Per una giusta causa, 1952), Vita e destino (1959) e appunto Tutto scorre (1963), un piccolo ma prezioso affondo monografico sulle storture del regime staliniano visto con gli occhi di un detenuto di lungo corso: «Capitava che sui pancacci della prigione giacessero fianco a fianco il segretario del comitato distrettuale, smascherato come nemico del popolo, e il nuovo segretario del comitato distrettuale che lo aveva smascherato, dimostratosi in breve lui stesso nemico del popolo, e trascorso un mese, ecco capitare nella cella il terzo segretario del comitato distrettuale…». All’Holodomor Grossman dedica i capitoli 14 e 15 di Tutto scorre,scritti con due approcci antitetici ma ugualmente efficaci, quello saggistico e quello narrativo, quasi che uno fosse la spiegazione e l’esemplificazione dell’altro: le riflessioni politiche e socio-economiche trovano piena significazione soltanto di fronte alla tragedia che tocca nel profondo il personaggio di Vasilij Timofeevic e la sua famiglia. 

Da alcune settimane disponiamo inoltre di un nuovo, eccezionale documento letterario che si associa al libro di Grossman, un racconto lungo di Ulas Samchuk scritto a Praga dall’esule ucraino già nel 1933 e tradotto ora in italiano da Mariia Semegen per una piccola ma vivace casa editrice fiorentina. Con uno stile realistico ma non appiattito sulla quotidianità, aperto anzi alle armoniche dell’epos e simile per certi versi a Kristin figlia di Lavrans di Sigrid Undset (1920, Nobel nel 1928), Maria è l’accorata narrazione di un destino che si esplicita e si invera, anno dopo anno, nelle lunghe e tormentate vicende della protagonista, una ragazza ucraina di umili origini confrontata ai grandi rivolgimenti che hanno toccato la sua regione tra la fine del XIX e i primi decenni del XX secolo. Dietro la lenta conquista dell’indipendenza economica e di una riconosciuta posizione sociale si leggono in filigrana i mutamenti radicali che hanno interessato l’Ucraina e la Russia tra la caduta degli zar e l’affermarsi dell’ideologia sovietica, fino alla terribile carestia degli anni Trenta alla luce della quale, retrospettivamente, la vita di Maria e della sua famiglia assumono un significato assoluto, quasi mitologico: «La casa di Kornij si trovava su una collina a un’estremità del villaggio. Là il sole splendeva vigoroso e tiravano forti venti. Quasi dalla soglia partiva il recinto, oltre al quale c’era la terra di suo fratello». Il filo rosso del nutrimento e il suo valore metaforico (non c’è nulla che, come il cibarsi, dica più intensamente «vita») attraversano il libro dalla prima pagina, in cui Maria neonata si aggrappa con foga ai seni della madre, fino alle ultime scene strazianti in cui la fame porta al delirio gli abitanti del villaggio: «Dalle case misere e mezze distrutte, le persone gonfie, sfinite, disgraziate uscirono al sole primaverile. Gli scheletri con le teste pelate, con gli occhi incavati e sbiaditi si radunarono in conciliabolo, si alzarono come defunti dalle tombe per formulare una risoluzione popolare». Tra questi due estremi si inanellano tanti piccoli segnali che ribadiscono la centralità del nostro rapporto con il cibo: l’icona della Vergine che allatta, il pane di segale richiesto dai prigionieri, gli incendi che annullano in un attimo il lavoro di mesi nei campi. 

L’operazione editoriale che, con lungimiranza, ha portato alla prima traduzione italiana del romanzo di Samchuk si deve all’iniziativa di Carlo Ossola e nasce nell’alveo dell’Istituto di Studi italiani dell’Università della Svizzera italiana, della quale la traduttrice era stata studente in anni passati. «Era arrivata come borsista della Confederazione Elvetica, insieme ad altri giovani provenienti da Paesi dolenti» afferma Ossola nell’introduzione, «Chiesi loro di tradurre in italiano il testo più caro alla loro libertà. Tutti sono stati pubblicati, tutti sono ancora ferite aperte».

Bibliografia

Ulas Samchuk, Maria. Cronaca di una vita, Edizioni Clichy, Firenze, 2022.