La copertina dell'album


Il prog che diventa jazz

Album tributo (ma non solo) a una delle band storiche britanniche, grazie a un eccellente quartetto italiano
/ 27.08.2018
di Alessandro Zanoli

Le etichette applicate ai generi musicali sono sempre pericolose. Appassionati e critici musicali però finiscono per usarle molto spesso, se non altro perché rendono più facili i discorsi. Sono punti di riferimento, da cui muovere per spiegare meglio il proprio pensiero. Inevitabile ricorrere alle etichette di genere, ad esempio, per parlare di un album come Frames of Crimson, proposto dall’esuberante trio composto da Bebo Ferra alla chitarra, Paolino Dalla Porta al contrabbasso e Fabrizio Sferra alla batteria, coadiuvati dal formidabile trombonista pugliese Gianluca Petrella.

L’album, pubblicato dall’etichetta Via Veneto Jazz qualche mese fa, è molto interessante proprio perché cerca di creare un corto circuito di genere, andando alla radice di alcuni tra i più famosi brani proposti nella loro quarantennale carriera dai King Crimson, e cercando di estrarne la magica essenza. Un’impresa realmente difficile: la band inglese di Robert Fripp è, come i suoi appassionati sanno, un nucleo proteiforme, tanto evanescente e inafferrabile, quanto solido e roccioso nella sua personalità. Una band fatta di sperimentazione e di lirismo che nel giro di pochi anni, tra il 1969 e il 1976, ha prodotto dischi memorabili, raffinatissimi, ruvidi e godibili. E che fino al 2013 ha continuato a sorprendere la comunità musicale con opere sempre diverse e profondamente inventive. Avevano cominciato nel 1969 con lo stupendo In the Court of the Crimson King, per passare a opere di ostinata perfezione formale e iconoclastica come (tra gli altri) Lizard (1970), Island (1971), Lark Tongues in Aspic (1973) e poi i più elettrici Discipline (1981) e Three of a perfect pair (1984).

Ma tutti i dischi della formazione britannica meritano un posto nella memoria collettiva e proprio l’album di Bebo Ferra e soci può fornire un pretesto per un riascolto storico-cronologico. Da cui possono venire a galla alcune considerazioni: riascoltati oggi, i King Crimson «originali» mostrano una vena jazzistica che va assolutamente rivalutata, e si inserisce in quella corrente musicale britannica che all’esperienza improvvisativa «free» ha così tanto contribuito.

Certo, l’impianto lirico di brani come I talk to the wind, Cadence and cascade, Lady of the dancing waters (influenzati dalla vena poetica del paroliere Pete Sinfield) è una delle caratteristiche più romantiche e riconoscibili nel suono della band londinese. E inevitabilmente anche il repertorio di Frames of Crimson sembra tener conto di questa componente melodica, riproponendo appunto alcune «dolcezze» crimsoniane. Lo fa però con un gusto aperto e sincero, con l’intenzione di espandere non tanto l’afflato lirico (forse un po’ demodé) dei brani, ma con il proposito di renderli moderni standard, da rivitalizzare e reinterpretare attraverso la solida personalità strumentale di ognuno dei musicisti in gioco.

Inutile dire che la forte personalità dei pezzi di Robert Fripp è talmente imponente da obbligare il quartetto a seguire le indicazioni originarie (si veda il caso di «monumenti» come Frame by Frame o Cat Food, resi in modo perfettamente riconoscibile e ortodosso). Nel complesso la sfida di «risuonare i Crimson» è mantenuta con lucidità e coraggio e risolta anche con l’inserimento nella scaletta di alcuni brani originali di Ferra e della band: sono pezzi di ispirazione libera ma focalizzata, tanto che pare vi facciano capolino frammenti di melodie frippiane.

E qui sta il punto interessante di questa produzione: ci predispone ad osservare lo sforzo di differenziazione compiuto dal gruppo, nel profondo rispetto che comunque traspare per il materiale di partenza. Nella godibilità di quello scarto sta la chiave di lettura di un album, che è anche un invito a riconoscere la grandezza di uno dei maggiori gruppi rock di tutti i tempi.