Fondatore e produttore della Akram Khan Company

Il privilegio di una prospettiva differente

Il produttore e drammaturgo di fama internazionale Farooq Chaudry si racconta e ci dà qualche anticipazione sullo spettacolo Portraits in Otherness in scena al LAC il 7 maggio
/ 02.05.2022
di Natascha Fioretti

Insieme, il drammaturgo pakistano Farooq Chaudhry e il ballerino e coreografo britannico di origini bengalesi Akram Khan sono l’anima della omonima compagnia di danza nota in tutto il mondo. Quando Farooq, manager artistico in erba, lo vide danzare per la prima volta nel luglio del ’99 non ebbe dubbi e si disse «questo ragazzo sarà il futuro dell’arte contemporanea».

Come possiamo spiegare il titolo Portraits in Otherness?

È un’estensione della filosofia della nostra compagnia di danza, la Akram Khan Company. Il viaggio è iniziato 22 anni fa e a caratterizzarlo sono sempre stati gli incontri di mondi e identità differenti, le persone coinvolte sono sempre state estranee al canone del mainstream. Ci siamo impegnati a raccontare storie e persone con linguaggi e identità multiple. Crediamo nel sostegno ai giovani artisti, parte dei proventi degli spettacoli che portiamo in tour vanno a un’organizzazione che finanzia i loro progetti. Sosteniamo chi come Akram Khan utilizza più linguaggi. Nato a Londra da genitori bengalesi, ha dapprima studiato il kathak, la danza tradizionale indiana, poi danza contemporanea, ha fatto teatro e molto altro. Siamo alla ricerca di un linguaggio nuovo, ibrido. Tornando al titolo dello spettacolo, la nostra idea è quella di celebrare la diversità intesa non come ostacolo, ma opportunità. Non avere appartenenza regala il privilegio di una prospettiva differente.

Tra gli artisti che si esibiranno al LAC, c’è anche un’artista svizzera. Una scelta casuale?

In dialogo con il LAC abbiamo pensato che fosse importante sostenere gli artisti locali, qualcuno che al contempo rappresentasse il vostro linguaggio e fosse un artista plurale. Così abbiamo pensato ad Amandine Ngindu, artista congolese di casa a Losanna.

Quali sono gli elementi che uniscono le tre performance?

Ad accomunarle sono sicuramente le radici urbane. A connotare Dickson Mbi è lo stile popping (insieme di danza funk e hip hop), Joy Ritter invece ci ha abituati al vogueing (uno stile di danza contemporanea) e Amandine condivide lo stesso background urbano connotato da un linguaggio estremamente contemporaneo. Guardandomi attorno devo dire che percepisco una nuova energia nella danza moderna che proviene dalla gente, dalla strada.

Cosa possiamo aspettarci dalla musica?

Devo ancora sentire Amandine, per Dickinson so che Roger Goula ha composto una musica ad hoc per il suo assolo dal titolo Duende che prende spunto dal concetto di animismo, dall’idea che l’energia vitale provenga da un impulso animale. La musica composta da Roger è più vicina alla musica classica con integrazioni di elementi urbani. La musica di Joy è molto affascinante, si è ispirata a Mary Wigman e alla danza della strega (Hexentanz) rielaborata in chiave moderna combinandola con la musica popolare filippina. Un ibrido composto di diversi elementi.

«Ibrido», è una parola che usa spesso. Perché?

Mi piace molto. C’è stato un tempo in cui per descrivere l’incontro tra due culture si usava il termine fusione. Parola che ho sempre trovato insoddisfacente perché indica due cose vicine l’una all’altra ma comunque distinte. Ciò che è ibrido ha la sua identità propria ma porta con sé, sintetizza gli aspetti migliori di chi o cosa l’ha generato.

Scelga cinque parole che definiscono il vostro lavoro

Curiosità, coraggio, collaborazione, connessione e cura. Abbiamo creato un motto per spiegare come interagiscono nel lavoro della Akram Khan: «Attraverso l’incontrarsi di mondi, invitiamo le persone a vedere, sognare, riflettere sulla bellezza e la complessità dell’essere umano». Entrambi, Akram e io, siamo uomini con eredità differenti, provenienti da contesti differenti e cresciuti in ambienti nuovi in cui abbiamo costruito una nuova eredità. Ci impegniamo a trovare la via per realizzare cose belle senza sminuire la complessità, ma accettandola. Le storie che raccontiamo devono poter rappresentare tutti, vogliamo che abbiano una valenza universale.

Lei e Akram collaborate insieme da 22 anni. Non sono pochi.

Ciò che da subito ci ha unito è stata l’energia che avevamo in comune. Volevamo imparare l’uno dall’altro, imparare dal mondo esterno, eravamo insaziabilmente curiosi e decisi a trovare nuovi sguardi sulla realtà. Eravamo mossi entrambi dal desiderio di riconciliarci con noi stessi. Abbiamo grande fiducia l’uno nell’altra, certo non siamo sempre d’accordo ma è giusto che sia così perché se due persone la pensano allo stesso modo su tutto allora ne basta una.

Se però le chiedo di scegliere un elemento in particolare, di dire qual è la ragione più importante del vostro successo, quale mi dice?

Abbiamo sempre messo l’arte al primo posto, questo ci ha reso veramente forti. Io sono il produttore, devo occuparmi del lato economico, ma il mio obiettivo non è soltanto fare un mucchio di soldi e rendere la compagnia prosperosa. Naturalmente è parte delle mia responsabilità farne una compagnia robusta, resiliente e indipendente ma ciò che davvero conta, ciò che sta al di sopra di tutto è l’arte, il servizio che a essa rendiamo.

Lei è considerato uno dei produttori di danza di maggior successo al mondo. Come si arriva a tanto, quali qualità occorrono?

Per essere davvero bravi in qualcosa ci vogliono competenze e il giusto atteggiamento mentale. Imprenditore per natura, il mio percorso è stato tutt’altro che lineare. Sono cresciuto a Londra negli anni Sessanta e con la mia famiglia abbiamo subito pesanti attacchi di razzismo che hanno seriamente danneggiato la nostra qualità di vita. All’età di dieci anni sono diventato un criminale locale, facevo irruzione nelle case e rubavo le auto. A 12 anni ho smesso di andare a scuola. A 14 sono andato in una comunità psicoterapeutica dove per riabilitare le persone dai traumi si insegnava teatro. Così a 17 anni ho incontrato la danza. Sembrerò un idealista ma sono convinto che se vuoi tirare fuori il meglio dalle persone devi amarle, non devi spaventarle. Farle sentire come la migliore versione di sé stesse è il mio compito di produttore.

Quale impatto ha avuto su di voi la guerra in Ucraina?

La guerra è una cosa orribile e drammatica, sentire ogni giorno le notizie di tante vite spezzate è insostenibile. Akram ha scritto qualcosa di meraviglioso sulla natura della guerra, non solo in riferimento all’Ucraina, riflettendo sulle conseguenze, su cosa fa la guerra all’umanità. Ne distrugge l’essenza, la fibra stessa di cui l’umanità è fatta, annienta il senso di comunità e di appartenenza che invece l’arte ci restituisce. Come compagnia abbiamo preso posizione in favore dell’Ucraina ma a livello personale voglio ricordare che la questione è più grande e diffusa. Pensiamo alla Siria. Pensiamo alle persone di colore morte ammazzate negli Stati Uniti. A dire la verità ho fatto anch’io le mie esperienze crescendo in Inghilterra. Agli inizi nei negozi ci imbattevamo in cartelli che dicevano «Vietato entrare ai neri, ai cani, agli irlandesi».
Abbiamo dovuto imparare a convivere con queste discriminazioni e con l’odio. Le persone che discriminano e odiano sono mosse dall’ignoranza e dalla paura di perdere qualcosa. Dobbiamo lottare contro questo tipo di comportamento. Spero che attraverso la responsabilità sociale, l’arte e la cultura sapremo trovare nuove strade che ci riconducano a una comunanza e una condivisione senza perdere la bellezza delle nostre differenze.

Dove e quando

Portraits in Otherness, 7 maggio 20.30 al LAC. Spettacolo promosso nell’ambito Steps, Festival della danza del Percento Culturale Migros.