Daniel Kehlmann non manca mai di sorprenderci. Lo scrittore, bavarese di nascita ma viennese d’adozione, classe 1975, nel suo ultimo romanzo Te ne dovevi andare, che Feltrinelli presenta nell’ottima traduzione di Monica Pesetti, si è intrufolato tra le pagine di Stephen King quasi volesse parodiare una certa atmosfera surreale. E c’è riuscito alla perfezione, come un classico maestro della letteratura horror.
Del resto già nel suo bestseller La misura del mondo (Feltrinelli 2006), si era divertito con molta irriverenza alle spalle di due geni come l’enciclopedico Alexander von Humboldt e il matematico Friedrich Gauss sorpresi in un fantomatico incontro nella Berlino del 1828. E più tardi in Fama. Romanzo in nove storie aveva messo in scena una realtà bizzarra e coatta zeppa di gerghi ipertecnologici, di esistenze virtuali, di storie improbabili: una sorta di abbecedario dei rituali contemporanei per raccontare che l’esistenza non ha più identità.
Forse è quello che a un certo punto pensa anche, con sgomento, il protagonista di Te ne devi andare, uno sceneggiatore che per una breve vacanza si è ritirato con la moglie Susanna, attrice, e la figlioletta Esther di quattro anni in una casa isolata fra i monti per scrivere il seguito del suo film di maggior successo. Una situazione che richiama il personaggio di Jack Torrance nel romanzo di King, Shining, isolatosi con la famiglia fra le montagne del Colorado a molti chilometri di distanza dal più vicino centro abitato. Difficile dimenticarlo dopo la grandiosa interpretazione di Jack Nicholson nel film omonimo diretto da Stanley Kubrick nel 1980. La mente di Jack vacilla fino a trasformarlo in un assassino, mentre il protagonista di Kehlmann sembra smarrire se stesso in una realtà sempre più inafferrabile e fantasmatica. Anche prima, del resto, non tutto filava liscio. Lui ama Susanna e non vorrebbe una vita diversa, ma poi alla fine i due litigano in continuazione. Forse la vacanza in mezzo alla natura, lontani dal mondo, servirà a rilassarli.
Se non fosse per quella casa dove c’è il rischio di perdersi e si hanno spesso strane sensazioni. Per non parlare dei sogni popolati da terrificanti visioni. Quando lui scende in paese per la spesa una piccola donna con enormi occhiali da sole gli consiglia di andare via alla svelta da quel posto, e più tardi il negoziante gli racconta che in passato era scomparsa della gente proprio lassù dove in origine c’era forse una torre costruita dal diavolo, che uno stregone «ha distrutta con l’aiuto di Dio».
Kehlmann crea intorno ai personaggi un’atmosfera sempre più inquietante popolata da visioni, miraggi, scambi d’identità, dissolvenze con suggestioni che richiamano storie di fantasmi. Il protagonista non vede più sé stesso riflesso sulla vetrata della stanza, mentre dalle pareti sono scomparse foto e immagini. Sogna di essere all’aperto nel freddo della notte, ma al risveglio, angosciato, rabbrividisce davvero e gli pare di essere rimasto fuori casa. Non ci sono più dubbi: in quell’ambiente c’è qualcosa che non quadra. Così decidono di partire, ma poi l’uomo scopre sul cellulare della moglie i messaggi appassionati di un certo David e la situazione si fa incandescente. Fra urla e pianti lei fugge via in macchina e lascia il marito solo con la piccola Esther, che nemmeno più le favole riescono a distrarre.
Intanto il produttore lo assilla con la sceneggiatura che va a rilento, perché lui ormai non pensa che ad annotare gli assurdi eventi di quelle ore. «Devo scrivere per non diventare pazzo», confessa a sé stesso. Poi da qualche parte si ode una voce umana e di lì a poco gli pare di scorgere una strana figura piegata sul letto della figlia. È un incalzare di impressionanti sensazioni che lo inducono a fuggire via con Esther per cercare altrove riparo e aiuto. Scendono per la strada di notte per raggiungere il fondo valle e finalmente scorgono in lontananza una luce, ma la delusione è immensa quando si accorgono che è ancor sempre la loro casa.
Kehlmann gioca con la sua stessa storia e la carica di eventi irreali, trasformando la vacanza di una coppia in crisi in un claustrofobico gabinetto degli orrori, uno spazio aperto sull’improbabile, dove anche il lettore perde il senso della realtà e affonda in un mare di dubbi. È una sensazione che l’autore sa abilmente trasmettere anche attraverso la struttura del racconto che alterna brevi scene della sceneggiatura che il protagonista sta scrivendo, con le annotazioni sul suo terribile soggiorno e i fatti reali. Sono angolazioni diverse, prospettive sospese, tracce di una finzione che riportano la storia narrata a una sorta di divertimento letterario. Dove non solo la realtà, ma l’identità stessa del personaggio si frantuma. Il protagonista si rivolge a sé stesso come fosse qualcun altro: «Forse posso farmi sentire oltre lo sciabordare degli abissi del tempo e dirgli: Vai via. Posso gridargli: Vai via prima che sia troppo tardi». Ma di là partirà solo sua figlia, che la madre è tornata a prendere. Vorrebbe andarsene anche con il marito a cui assicura che quel David non conta nulla per lei. Tutto potrebbe tornare come prima se lui riuscisse a riconquistare la propria realtà. Ma si sente spaccato in due, estraneo a ogni affetto. Forse è veramente troppo tardi per riprendere quella vita che gli è sfuggita incomprensibilmente di mano.
Bibliografia
Daniel Kehlmann, Te ne dovevi andare, Milano, 2022, Feltrinelli.