Nella terribile classifica dei principali luoghi di sterminio del Novecento il campo di detenzione di Treblinka, sessanta chilometri a est di Varsavia nella Polonia occupata dai nazisti, si situa al secondo posto subito dopo Auschwitz-Birkenau. Liberato alcuni mesi prima di quest’ultimo, nell’estate del 1944, dall’avanzare delle truppe sovietiche, dell’Inferno di Treblinka si conserva un eccezionale resoconto steso da Vasilij Grossman, celebre corrispondente di guerra che vi entrò tra i primi assieme all’Armata Rossa. «Mai l’Universo aveva visto qualcosa di così spaventoso», scrisse Grossman nel suo reportage per la rivista «Znamja» (oggi in italiano da Adelphi), in poche e strazianti pagine redatte grazie alle testimonianze di alcuni sopravvissuti, tanto dettagliate e veritiere da essere accolte tra gli atti del Processo di Norimberga.
Ancora saldamente allineato alla fierezza ideologica sovietica (il comunismo in un solo Paese), Grossman non mancava in quel testo di elogiare lo sforzo, anche simbolico, dei suoi compatrioti: «Il mondo tace, schiacciato, asservito dai banditi in camicia bruna che lo hanno in pugno. Eppure a molte migliaia di chilometri, sulle rive lontane del Volga, l’artiglieria sovietica tuona ancora, proclamando ostinatamente la volontà del popolo russo di lottare fino alla morte per la libertà, e risvegliando, chiamando alla lotta i popoli del mondo».
La discesa in campo delle truppe di Stalin nel giugno del 1941, con la quale si era inaugurata la «Grande Guerra Patriottica» (per la storiografia non russa il più semplice «Fronte orientale»), aveva in qualche modo aiutato a dimenticare i crimini del 1937-39, le cosiddette «purghe» e gli scellerati accordi segreti del patto Molotov-Ribbentrop attorno alla spartizione della Polonia. L’afflato bellico, proiettato su un palcoscenico mondiale e incarnato dalla coraggiosa battaglia di Stalingrado, era riuscito a scaldare il cuore di intellettuali altrimenti acuti e guardinghi come Grossman. La lotta contro il male assoluto del nazifascismo li aveva di nuovo illusi, in fondo, sulla missione benefica dello stalinismo.
È sorprendente, a tale proposito, il confronto tra il reportage di Treblinka e l’opera più celebre di Grossman, il romanzo-fiume Vita e destino, scritto negli anni Cinquanta e subito confiscato dal KGB. Al termine di peripezie simili a quelle del Dottor Živago, avrebbe visto la luce postumo e incompleto soltanto nel 1980, presso la casa editrice svizzera L’Âge d’Homme, fondata a Losanna dall’esule serbo Vladimir Dimitrijevic – da cui dipese la prima edizione francese, e da lì quella italiana pubblicata nel 1984 da Jaca Book, oggi finalmente completa grazie alla traduzione di Claudia Zonghetti per Adelphi.
Alla brusca virata dell’autore, che in pochi anni era diventato un severo osservatore delle derive del comunismo, aveva contribuito certo la sua identità ebraica, nei confronti della quale il suo Paese si era mostrato criminalmente prossimo all’esempio nazista. «Non abbiamo mai capito cosa fosse la libertà», ammette uno degli innumerevoli personaggi del romanzo, l’anziano rivoluzionario Magar, «L’abbiamo soffocata. Neanche Marx la teneva in gran conto, mentre invece è la base, il senso, il fondamento di ogni fondamento. Senza libertà, la rivoluzione proletaria non esiste».
Parole di estrema lucidità si rincorrono, per bocca di personaggi sempre nuovi e sempre diversi, lungo tutte le 700 pagine del libro, che non risparmiano riflessioni sulla concezione stessa della società sovietica: «Se non gli servi, lo Stato ti consuma, strapazza te, le tue idee, i tuoi programmi e le tue opere. […] Stalin costruisce quel che serve allo Stato, non all’uomo. […] Non c’è posto per Dostoevskij nella nostra ideologia. […] Majakovskij è lo Stato fatto carne, fatto emozioni. Dostoevskij, invece, è l’uomo e basta, anche quando è dentro a uno Stato».
Nel Giorno della Memoria, creato per impedire che genocidi come l’Olocausto si ripropongano in futuro in qualche parte del mondo, non può fare che bene ritornare al primo «campanello d’allarme» lanciato da Grossman con il suo romanzo: un memento affinché gli uomini di buona volontà, quelli che eleggono la libertà, l’accoglienza e il rispetto dell’altro tra i valori più alti del vivere civile, non abbassino la soglia d’allerta, illudendosi di avere chiuso per sempre quella partita con il male.
E a cento anni dalla nascita di un altro testimone di quegli anni terribili, gli si potrebbe accostare la voce di un Rigoni Stern, che dal fronte opposto a quello di Grossman lanciava un appello in tutto simile, scritto soltanto in una lingua diversa: «Non esiste nemico; il nemico lo crea chi ha interesse che ci sia il nemico. Ma io non ho mai incontrato nemici, io ho incontrato il prossimo, anche in guerra, anche se ho sparato, anche se ho forse ucciso. Però non ho incontrato nemici; forse nemici erano quelli che ci hanno mandato in guerra».