«Il mio nome è Bond, James Bond». Un semplice biglietto da visita, capace tuttavia di soffiare il titolo di miglior battuta della Storia del cinema al dialogo finale di A qualcuno piace caldo, che lo deteneva da decenni («Ma non capisci proprio niente, Osgood, sono un uomo!» «Beh, nessuno è perfetto!»). Ciò non sarebbe potuto accadere se a pronunciarle, quelle sette parole, non fosse stato lo 007 per eccellenza: Sean Connery, il quale proprio domani compirà 90 anni. Nato in un quartiere povero di Edimburgo («Casa nostra aveva ancora il bagno in comune sul pianerottolo»), appena compiuti diciott’anni si arruola nella Marina di Sua Maestà, ma pochi mesi dopo viene congedato a causa di un’ulcera.
Lui si dispera, non sapendo che quell’esonero avrebbe segnato l’inizio della sua fortuna: costretto ai lavori più umili (fattorino, muratore, bagnino, garzone d’un lattaio), si presenta nel ’53 alle selezioni di Mister Universo sfoggiando un fisico scultoreo e muscoli forgiati da fatica e sudore, più che da sedute in palestra. Viene presto eliminato, ma fa in tempo a farsi notare dagli impresari che stanno mettendo su una rivista musicale, e si improvvisa ballerino di rango. Nel 1962 l’esordio sul set, nel film Il giorno più lungo, agiografia cinematografica dello sbarco in Normandia con un cast ancora più lungo di quel fatidico 6 giugno 1944.
La sua è solo una particina, accanto a mostri sacri hollywoodiani quali John Wayne, Henry Fonda e Robert Mitchum, sufficiente tuttavia per segnalarsi all’occhio fine dei produttori Salztman&Broccoli. Sarà Sean Connery l’interprete ideale di James Bond, l’agente segreto 007 nato dalla fantasia dello scrittore dandy e snob Jan Fleming. Certo, da questi deve imparare un minimo di buone maniere: come sedurre tante Bond Girls (scelte da S&B tra le ragazze più belle al mondo, poco importa se non sanno recitare), come distinguere un Dom Pérignon da un millesimé qualsiasi e come vestirsi a seconda delle circostanze. Il ragazzo apprende in fretta, l’incubo di dover tornare in sella a una bici per distribuire bottiglie di latte è per lui il miglior maestro di recitazione al mondo. Dr. No (Agente 007 licenza di uccidere) ottiene un successo clamoroso quanto planetario.
Merito di Connery, of course, ma anche della «nostra» Ursula Andress, novella Venere uscente dalle acque con un bikini bianco da lei stessa disegnato, poi divenuto autentica icona (e venduto all’asta anni fa per una cifra assurda); nonché del futuribile apparato tecnologico di cui dispone Bond: dall’Aston Martin super accessoriata, agli ammennicoli apparentemente banali – penne, orologi, accendini – che in realtà nascondono insidie sovente letali per i suoi nemici. È l’inizio di una delle più fortunate saghe del cinema, sei film dagli incassi stratosferici, cui però Sean decide improvvisamente di dare un taglio. «Non mi andava di vedere gli effetti speciali prevalere sull’ironia di Bond», spiegò anni dopo.
I suoi fans si disperano, ma cominciano a conoscere l’uomo Connery: uno scozzese con ascendenze irlandesi («Non ho una sola goccia di sangue inglese»), un convinto nazionalista che si mostra orgoglioso col tradizionale kilt e che sul braccio ha tatuato «Scotland forever», sebbene non l’abbia mai mostrato nei suoi 80 e passa film. Ma lo scoprono pure filantropo generoso che non si è mai dimenticato delle sue umili origini («Papà era spesso senza lavoro, mamma faceva la sguattera per poche sterline»).
Quando ottenne un ingaggio ufficialmente registrato nel Guinness dei primati (2 mio di dollari per un solo film, e si era negli anni 70 del secolo scorso), lo usò per fondare la «Scottish International Trust», che si prende cura dei giovani scozzesi emarginati. Vegano da oltre un decennio, Connery si impegna anche per l’ambiente, supportando Al Gore.
I cinefili hanno avuto modo di apprezzare la sua infinita versatilità di attore, del resto già notata da registi quali Hitchcock (Marnie), Lumet (La collina del disonore e Riflessi in uno specchio scuro), Boorman (Zardoz), Huston (L’uomo che volle farsi re), Spielberg (Indiana Jones e l’ultima crociata, dove è il babbo di Harrison Ford), Gus Van Sant (Scoprendo Forrester). Indimenticabili sono pure le sue interpretazioni di Guglielmo da Baskerville ne Il nome della rosa, e del poliziotto – irlandese! – Jimmi Malone ne Gli intoccabili di Brian De Palma (che gli valse l’Oscar).
Da segnalare anche il «suo» Douglas Meredith in Cinque giorni un’estate, girato sulle Alpi del nostro Paese e diretto da Fred Zinnemann, uno dei tanti cineasti europei che, scappando dalle tenebre del nazismo, se ne andarono a Hollywood per svelare ai registi USA come si realizza un «vero» film. Zinnemann («Un uomo sospeso tra due realtà: la vecchia Europa e l’infingarda Hollywood») divenne poi uno dei suoi pochi amici, accanto a Donald Sutherland, Michael Caine e Michael Crichton, scrittore/regista che l’ha diretto ne La prima grande rapina al treno.
Nel 2005 Connery affermò in un’intervista a «The New Zealand Herald» di volersi ritirare dalla recitazione, dicendo di essere stufo degli idioti; nella stessa intervista rivelò di aver rifiutato il ruolo di Gandalf nella trilogia Il Signore degli Anelli perché non l’aveva mai capita e quello di Albus Silente nella saga di Harry Potter perché non credeva nel progetto. Ha tenuto fede alle promesse e da allora ha prestato solo la sua voce a un videogioco ispirato a 007 e al protagonista del film d’animazione Sir Billy (anche lui è Sir, dal 1999).
Considerato da almeno due generazioni di donne l’uomo più sexy del mondo, Connery è stato sposato per dodici anni con l’attrice Diane Cilento e da quasi mezzo secolo vive con la seconda moglie, la pittrice Micheline Roquebrune (che i 90 li ha già raggiunti lo scorso anno). Fedelissimo al limite della monogamia stando alle riviste di gossip, dice tuttavia di nutrire grande ammirazione per Katherine Hepburn e Meryl Streep. Ha qualche rimpianto?, gli chiesero anni fa. «Sì, non aver potuto recitare con Anna Magnani, la più grande attrice della storia».